Il giardino dell'accoglienza - Live Sicilia

Il giardino dell’accoglienza

A sera, il giardino sembra un tappeto bianco, una distesa ordinata di materassi e lenzuola che al mattino ognuno ripone di nuovo dentro.

Solarino è ancora la cittadina in cui cresce il ciclismo siciliano. Mentre in auto mi avvicinavo al centro, ecco un paio di ciclisti; qualche curva, ed incrocio un altro gruppo. Pedalavano sulla strada che passa accanto alla centrale idroelettrica dell’Anapo.

Ho deciso di andare a Solarino per incontrare il sindaco Sebastiano Scorpo. Avevo, infatti, letto un articolo apparso mercoledì scorso sul “Fatto Quotidiano”, in cui Veronica Tomassini raccontava che la giunta comunale avendo sentito di nuovi sbarchi di immigrati a Siracusa, aveva invitato i cittadini a raccogliere alimenti, indumenti, farmaci, giocattoli.

Il sindaco Scorpo è giovane, con buone idee, e mi dà un benvenuto genuino, di chi lavora, insieme al resto della giunta. “Non si può rimanere indifferenti di fronte a una tragedia che si consuma a pochi chilometri dalle nostre case. Abbiamo quindi deciso di installare dei gazebo in piazza. Il riscontro è stato straordinario. I cittadini hanno donato grandi quantità di cibo, vestiti, medicine, giochi per i bambini. Subito dopo siamo andati a Siracusa da don Carlo D’Antoni che si occupa di accogliere i profughi, e gli abbiamo lasciato quanto raccolto”. La figura di don Carlo mi interessa immediatamente e mi incuriosisce. Mi pare di poterla accostare ai preti di strada come lo straordinario don Gallo. Chiedo dunque come posso incontrarlo. “E’ semplice, a Siracusa, chiesa di Bosco Minniti. Non può sbagliare, è un edificio fatto di blocchi di tufo, che ora è in ristrutturazione”.

Arrivo alla chiesa, attraversando una zona degradata della città. Trovo il cancello e un basso muro di cinta. La struttura non è in buone condizioni. Mentre mi avvicino, leggo uno dei tanti graffiti sulle pareti esterne: “Tanx don Carlo”. Il giardino è ben tenuto, alberi fioriti, ragazzi e ragazze di colore seduti su panchine, a leggere o a riposare; bambini che giocano. Don Carlo mi accoglie con una piccola malese in braccio. Ha le treccine e si chiama Pace (tradotto dalla lingua del suo Paese). Nessun segno che mostri che don Carlo è un prete. Indossa una felpa e dei pantaloni, con grande semplicità. Sediamo sul bordo di un’aiuola e accende una sigaretta. “Anche se non la conosco, sono felice di vederla. Qui c’è bisogno di tutto, ma quello che serve sempre sono la solidarietà e la compagnia”.

E’ quasi ora di cena, un odore di cipolla e melanzane fritte attraversa il giardino. “Stiamo cucinando. Grazie alle donazioni, i nostri fratelli riescono a mangiare tre volte al giorno, talvolta anche il gelato. Pasta, riso, olio, latte, sono le cose che chiediamo, quelle fondamentali”. Dico a don Carlo che il messaggio che bisogna far arrivare alla politica è che la Sicilia è la porta dell’Europa. Ma l’Italia tutta e l’Europa, in modo lineare e forte, devono occuparsi insieme alla Sicilia di chi (così come hanno fatto i nostri padri pochi decenni fa) emigra da paesi meno fortunati del nostro per tentare di costruirsi una vita migliore.

“Oggi qui sono in pochi, una trentina. Ma si arriva a numeri molto più consistenti. In questo periodo dormono fuori. E’ estate e ne stiamo approfittando per ristrutturare la chiesa che in inverno utilizzeremo come dormitorio. A sera, il giardino sembra un tappeto bianco, una distesa ordinata di materassi e lenzuola che al mattino ognuno ripone di nuovo dentro”. A pochi metri da noi, attorno a un tavolo di legno, siedono alcuni ragazzi e una bella signora. E’ la professoressa Maria Maddalena Giuffrida, docente di pianoforte al Conservatorio, che insegna l’italiano agli ospiti di Bosco Minniti. Mi avvicino, saluto. Maria Maddalena scrive su una lavagnetta le coniugazioni verbali, e dei ragazzi le trascrivono su dei quaderni. Mi stupisco della loro grafia, è già bella e ordinata. Sono malesi, di religione musulmana, parlano il francese e la lingua bambara.

Mi guardo ancora intorno. Il giardino è pulito, pieno di volti sereni, alcuni tristi, ma calmi e realistici; e poi bambini che giocano ma non strillano, non fanno troppi capricci. Ragazzi e ragazze che pensano con occhi profondi. In un istante, tutti quegli sguardi mi dicono che la vita è una cosa naturale. Ha una struttura essenziale e semplice, e va assolutamente difesa. Mi giro verso don Carlo. Riesce a dare moltissima vita partendo da poco, davvero poco. “Questa è la chiesa che rispetto”, gli dico stringendogli la mano. “Anch’io”, risponde.

 

 


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