Il Montevergini 'okkupato' | Viaggio nel caos di un'utopia - Live Sicilia

Il Montevergini ‘okkupato’ | Viaggio nel caos di un’utopia

Dal sette ottobre i locali sono occupati. Segue la cronaca di un prevedibile disastro.

PALERMO– Sono i protomartiri del buco con la ciambella della rivoluzione intorno. Sono i ragazzi dell’Isola che non ci sarà mai. Vogliono restare innocenti: di quella innocenza che finisce col distruggere perfino le macerie. Sono anche gentili, accoglienti, desiderosi di spiegarsi e carini Sono gli ‘okkupanti’ che hanno ‘preso in prestito’ il teatro Montevergini di Palermo, per tessere un’illusione, il rammendo povero di una vecchia lotta da assaltatori del Palazzo d’Inverno.

La storia dura dal sette ottobre scorso, da quando una nota annunciò, trionfante, la conquista in nome di un non meglio specificato ‘Bene comune’. Ed è una vicenda in cui si mischiano l’approssimazione ingenua di chi decide di fare da sé unita all’ignavia di un’istituzione comunale che non ha mai messo mano a qualcosa che potrebbe essere culturalmente un riferimento, eppure non è.

Il teatrino conobbe il suo splendore nell’epoca del tanto esecrato Diego Cammarata, grazie al talento di Alfio Scuderi. Un uomo intelligente e di sinistra a cui Diego consegnò le chiavi di uno spazio destinato all’oblio. “Ho fatto tante cose belle lì – ricorda Scuderi -. Abbiamo prodotto il primo spettacolo di Isabella Ragonese, abbiamo messo in scena opere meravigliose che poi sono andate in tournée in tutta Italia, abbiamo lanciato progetti musicali, come quello de “I Tre Terzi”, diventata poi una band di successo. Ho incontrato i ragazzi dell’Assemblea e sono felice che grazie al loro intervento si torni a parlare del teatro, ma non sono d’accordo con la loro idea, con il progetto che vorrebbero mettere in pratica”. Che prevede una serie di attività ‘poco spettacolari’, dalla meditazione, allo yoga, all’esibizione di improbabili gruppuscoli. Tutto, ovviamente, nel segno del collettivismo.

L’Isola che non ci sarà mai si stende sul gran fiume del percorso Arabo-Normanno, in corso Vittorio. All’ingresso, un tazebao che serve da memo degli appuntamenti, raccoglitore di idee, taccuino della ribellione. Gli ‘okkupanti’ presidiano sede e panche. Di locali giungono lacerti di prove e voci microfonate. I custodi del Comune attendono qualcosa – forse Godot, forse il caffè del bar – con pazienza. Il contesto risulta suggestivo, accattivante, irrimediabilmente inutile. Soprattutto perché qui ci credono davvero alla revolucion che dissipa la noia, senza badare al risultato. Credono alla palingenesi proletaria in salsa borghese e chic.

L’Io narrante è Turi. Al cronista viene concesso qualche nome, niente foto, né qualifiche, né altro. Perché? “Perché – dice Turi – noi siamo una comunità e parliamo come tale. Non ci sono individualismi. Siamo i rappresentanti di un’assemblea”.

Turi, il cantastorie indicato, narra: “La nostra idea è quella dell’uso civico del bene comune: un esperimento che altrove ha funzionato benissimo”. E si interrompe subito. Alla porta c’è un ragazzo che è venuto a perorare la causa del suo gruppo. “Abbiamo un complesso di musica folk, siamo tre. Non troviamo spazi per suonare. Ci ospitate?”. Il Politburò che coagula le esigenze di una indistinta moltitudine – c’è solo una ragazza per le quote rosa – rimanda ogni decisione all’assemblea del lunedì, che è l’organo politico dell’okkupazione. Turi continua. Il leader è lui, anche se non lo ammette, perché la gerarchia non è prevista dallo statuto uso tazebao: “Noi non pensiamo di essere solo un simbolo di lotta. Siamo una strada alternativa tra pubblico e privato che prevede l’uso di un bene comune, a vantaggio di tutti”.

Sulla pagina web dei manifestanti, non manca un necrologio feisbucchiano del trapassato dittatore di Cuba: “Vogliamo ricordare il comandante Fidel, baluardo del socialismo, nel giorno della sua morte, con questa sua frase: ‘Per non lottare ci saranno sempre moltissimi pretesti in ogni epoca e in ogni circostanza, ma mai, senza lotta, si potrà avere la libertà””. Non mancano foto di ‘comizi-prolet’, con anziani aficionados delle rivoluzioni di ogni ottobre, giovani virgulti del socialismo irreale e il risaputo, notissimo armamentario. Insomma, il teatro non c’entra niente: hanno messo in piedi una comune old style.

Sulla medesima pagina, gli appuntamenti della settimana. Proiezioni di film con sottotitoli in esquimese, sedute yoga, danza e corpo libero, conferenza sul Muos e sul G7 con un evidente sentore anti-imperialista. Ma, appunto, città e arte che c’azzeccano?. Una parabola che a qualcuno ricorda – per difetto, perché lì c’erano pure attori e registi – quella del Teatro Valle a Roma, anch’esso ‘okkupato’ per tre anni e riconsegnato all’amministrazione in condizioni pietose, secondo le cronache (ma sulla responsabilità del declino non c’è concordia, in un rimpallo di accuse).

E il Comune che fa? Dopo un’iniziale faccia feroce, si è addivenuti alla strada del ‘confronto’, perché, prima o poi, ci sanno le elezioni. L’assessorato promette che il bando per l’assegnazione degli spazi sarà apprestato. Quando? Non si sa. Morale della favola: hanno (abbiamo) perso tutti. Chi non ha governato, chi ha commesso un atto di appropriazione indebita, chi è rimasto a guardare. Anzi, hanno vinto in due. Alfio Scuderi, intellettuale (di sinistra) che rivitalizzò il teatrino, convocato da Diego Cammarata, sindaco (di destra). Loro sono riusciti, lì dove i protomartiri e i professionisti dell’utopia hanno miseramente fallito. E adesso chi glielo spiega a Luca Orlando e Giusto Catania?

 

 

 

 

 

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