Il peccato di chiamarsi Provenzano| La condanna di mafia e antimafia - Live Sicilia

Il peccato di chiamarsi Provenzano| La condanna di mafia e antimafia

Angelo Provenzano, figlio del superboss Bernardo

Condannato dalla mafia e dall'antimafia, ecco il destino di Angelo Provenzano, figlio di Binnu. Anche lui vittima della follia sanguinaria di suo padre, ma non solo. Messo in croce dai censori, solo perché aspira a vivere.

Condannato per sempre è Angelo Provenzano, figlio di Binnu. Non può amare suo padre senza che si sovrappongano l’ombra dell’assassino e il sangue delle sue vittime. Pure lui vive in una cella di isolamento. Bernardo si sta spegnendo nel carcere duro, oltre ogni logica, oltre ogni pietà, Angelo sopravvive nel 41 bis dell’amore, incatenato al delitto che non gli appartiene.

Condannato è Angelo Provenzano, oltre ogni pietà, oltre ogni logica, dalla violenza che lo Stato, in nome della legge, sta imponendo al corpo di Binnu. Non c’è più un uomo in cella. C’è il mostro che fu. C’è un fantasma che succhia gli ultimi respiri di vita. E c’è sempre, di riflesso, la condanna di un figlio che invoca il padre, mentre muore così, privo di ogni umanità. La giustizia – se di cognome fai Provenzano – ha il sinistro riflesso dei ceppi, nella camera del supplizio.

Alla condanna della mafia – soffri perché figlio maledetto del male – si è aggiunta l’implacabile sanzione dell’antimafia, quando si è saputo degli incontri che un tour operator organizza tra Angelo e certi turisti in cerca di elementi di prima mano sulla storia di Cosa nostra. L’indignazione è divampata unanime: “Questa notizia ha dell’incredibile. E’ solo apparentemente innocua. Oltre a raccontarsi ai turisti il figlio di Provenzano potrebbe trovare un po’ di tempo per dire ai magistrati dove si trovano le ricchezze accumulate dal padre e chi le amministra”, Beppe Lumia dixit, stando alle cronache.
“Angelo Provenzano ha potuto studiare e vivere con il sangue dei nostri martiri, dovrebbe rinnegare il padre, cambiare il suo nome, conoscere la fatica di chi lavora nei campi confiscati alle mafie”, ha incalzato Vincenzo Agostino, papà di Nino, poliziotto ucciso dalla mafia.

Qui si svela la nudità di certa nostra antimafia militante. Non basta che tu sia davvero innocente. Se sei figlio di Bernardo Provenzano, devi vivere, incatenato al silenzio e all’invisibilità, per espiare una colpa che non hai commesso. C’è la condanna della mafia e quella dell’antimafia che – in assenza di specifici capi di imputazione – punisce il reato di parentela con la morte civile.

Ed è pesante scriverlo, pensando alla barba candida di Vincenzo Agostino e al suo animo straziato di padre. Ma è impossibile non chiedersi quale magrissima speranza rappresenti questa legalità che non perdona il sentimento filiale, né permette occasioni di riscatto, che addita ai figli incolpevoli la stessa cella di isolamento dei genitori, che gli impedisce di dire chi sono e di narrare la loro storia, che preferisce la storie mafiologiche di Massimo Ciancimino; la legalità che ha sostituito la necessità di giustizia, col bisogno di vendetta.

Angelo Provenzano non dovrebbe limitarsi a incontrare i turisti curiosi; dovrebbe essergli consentito di andare nelle scuole, di tenere conferenze, per offrire diretta testimonianza sulle macerie lasciate da Riina e da suo padre nel cuore di tutti. Sarebbe un’altissima lezione di educazione civica. Nessuno meglio di lui potrebbe raccontare quanto sia immenso questo dolore, vissuto dalla parte sbagliata.

 


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