CATANIA – Francesco Lo Moro viene identificato grazie alle chiavi di casa. Quelle hanno resistito al fuoco che ne ha carbonizzato il corpo. È il 26 giugno 1994 quando il cadavere è ritrovato, ma la sua scomparsa risale a 19 giorni prima. La denuncia di scomparsa della madre però del 10 giugno 1994. Un omicidio per cui deve rispondere Francesco Di Grazia, detto Franco ‘u sfasciu, imputato nel processo Thor.
È il quinto delitto, su 23, che il pm Rocco Liguori affronta nella sua lunga e articolata requisitoria. Francesco Squillaci, il pentito che ha fatto risolvere decine di omicidi di 30 anni fa, racconta che Franco Di Grazia, Lello Quattroluni e Nunzio Zuccaro accusano il ragazzo di aver fatto una rapina al distributore di carburante di Marcello D’Agata, uno dei tre consiglieri – all’epoca della famiglia Santapaola-Ercolano. Un errore che deve pagare con la morte. Squillaci e Di Grazia sono latitanti all’epoca. Ma il cugino del collaboratore – omonimo – conosce il ragazzo ed è incaricato di portarlo nella casa di campagna a Valcorrente dove Di Grazia vive. Non c’è la certezza che fosse veramente lui il rapinatore, ma il boss sarebbe stato lo stesso contrariato per il fatto che il padre sarebbe stato arrestato con delle armi e sarebbe stato soggetto legato ai Cappello. Anche Francesco Squillaci nutre dubbi per questo chiede a Di Grazia di poterlo interrogare prima di qualsiasi mossa.
Nella villetta di campagna oltre Squillaci e Di Grazia ci sarebbero stati Nunzio Zuccaro, Lello Quattroluni, Orazio Scalia il biondo, Giovanni Munnizza Rinaldi (poi ammazzato) e forse Maurizio Cusumano (altro collaboratore di giustizia).
Appena Lo Moro arriva, Ciccio Martiddina (Squillaci, ndr) gli punta una pistola alla tempia e lo interroga dopo averlo legato alla sedia. Il ragazzo giura di non aver commesso il colpo e che suo padre non è un affiliato ai Cappello. Il killer di Gianni Lizzio decide di lasciarlo andare ma Di Grazia non è dello stesso avviso. E così annuncia al giovane che sta per morire. E dà l’ordine a Squillaci che lo esegue e lo strangola. Nino Sambataro, Giovanni Munnizza e Orazio Scalia si sarebbero occupati di bruciare il corpo con i copertoni nelle campagne di Motta Sant’Anastasia. Ma prima sarebbe stato incrapettato e messo nel cofano di un’auto.
Maurizio Cusumano, anche lui, racconta qualche particolare dell’omicidio. Da ex esponente del gruppo di Monte Po (all’epoca diretto da Natale Di Raimondo) spiega che si era occupato di omicidi tra cui quelli di Paolo Miraldi e Giovanni Miraldi. Nel 1999 parla di alcuni omicidi commessi da Miraldi tra cui quello di un giovane di Monte Po che abitava in via Pitrè e il cui padre si chiamava Filippo (elementi riscontrati dal Ros, ndr). Miraldi avrebbe confessato a Cusumano che Di Grazia avrebbe deciso di ammazzare il giovane. Il pentito inoltre accenna a una storia sentimentale che il boss avrebbe avuto con la madre della vittima.
È questo l’unico “contrasto” tra il racconto di Cusumano e quello di Squillaci, ma per il pm “non incidono” sulla “corrispondenza sostanziale del racconto”. Tutte gli elementi sono “certamente sufficienti – dice Liguori al gup – per la prova della responsabilità di Di Grazia per questo ennesimo efferato ed inutile omicidio, alla fine questo ragazzo giovanissimo è stato ucciso senza che avesse fatto nulla di male”.
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