La Chiesa che sa amare | ha accolto don Franco - Live Sicilia

La Chiesa che sa amare | ha accolto don Franco

Lacrime e commozione ai funerali
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La voce si strozza, quando le parole non riescono più a reggere il filo teso delle emozioni. L’uomo all’altare si ritrova da solo col suo tormento e piange.  E’ nudo, con le sue lacrime, mentre la gente batte le mani per colmare le tenebre di un vuoto, come se volesse abbracciarlo e coprirlo dal freddo che soffia da dentro. Lo chiamano “eminenza”. Gli baciano l’anello. Ma l’uomo con la berretta rossa è avvinghiato alla sua fragilità senza risposte. Gli è mancato il fiato, proprio mentre le stava cercando in un intrico di dolore e significati oscuri. Allora, Paolo Romeo, cardinale di Palermo, anima coraggiosa – quella figura avvolta nella porpora del suo sgomento – fa quello che deve fare, per mestiere, cuore e fede. Si rivolge al suo Dio, al Dio di tutti coloro che riempiono di sussurri e silenzi la chiesa di Don Orione. E prega, non ascoltato, a mezze labbra. Un sacerdote si alza. Lo bacia e l’abbraccia.

Il centro di tutto lo strazio della comunità è la bara di don Franco, deposta nella navata. Il prete dei giovani che si è tolto la vita ha chiamato una grande quantità di amici, fedeli e curiosi. E’ giusto dare conto di un dubbio. I fratelli del morto parlano di malore, dell’attacco improvviso che avrebbe tolto l’equilibrio a un diabetico, provocando il volo dal balcone, dal decimo piano del civico diciotto di via Don Orione. La Chiesa, però, sembra procedere su un sentiero di dolente sicurezza, nel senso di una percezione chiara. Ci mettono un “forse”, perché non si sa mai e tuttavia il riferimento al tragico epilogo, al buio, all’angoscia che ottenebra, è esplicito. Lo è stato fin dal primo giorno. Un’altra ferita serpeggia nel fianco dei passanti che si avvicinano ai cancelli della canonica. Se è sucidio, se c’è il legittimo sospetto, perché un funerale in pompa magna? Togliersi la vita non è più un peccato mortale? Noi, laici incalliti con qualche reminiscenza di Bibbie e Vangeli, siamo andati a ripescare sul web un pezzo del catechismo. Leggiamo: “Il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare e a perpetuare la propria vita. Esso è gravemente contrario al giusto amore di sé. Al tempo stesso è un’offesa all’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi. Il suicidio è contrario all’amore del Dio vivente. Gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida.  Non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può loro preparare l’occasione di un salutare pentimento. La Chiesa prega per le persone che hanno attentato alla loro vita”.

Più che nella dottrina, la vera risposta sta nel gesto, nelle mani che consolano e distruggono. Gesto del nulla la caduta di don Franco Galizia. Gesto d’amore il pianto del cardinale che si rivolge ai giovani. E li invita a non smarrirsi, a non perdersi, a non cancellare, quanto di buono è stato seminato. Li incoraggia, li sprona. Sono i ragazzi dell’oratorio assiepati in chiesa la maggiore preoccupazione di Paolo Romeo, pastore di pecorelle smarrite. E’ nel discorso con i giovani che il timbro della voce si spezza, fino a sciogliersi in lacrime. Il silenzio incombe. Opprime i cuori. E’ un macigno sulla bara, col messale, la foto e i fiori bianchi. L’esortazione del cardinale è un grido di rinascita nella tempesta: “Il silenzio non è mai l’ultima parola”. La Chiesa che sa amare abbraccia don Franco e la sua corona di spine.

Riproduzione riservata @ (Foto di Gaia Anderson)


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