Quella testa sbrecciata, quel naso ferito, quello sguardo vitreo fanno male in un punto profondo del cuore. E’ come se fosse coinvolto il corpo di Giovanni Falcone, non la sua statua ridotta quasi in polvere dallo scempio in una scuola dello Zen, qualche giorno fa. Nella cenere bianca sparsa per terra ricorre l’offesa alla fragilità di un uomo che, nonostante il suo essere soltanto un uomo, seppe avere coraggio.
Immagini i suoi occhi, mentre erano a malapena distinguibili nell’oscenità delle lamiere ricurve sull’autostrada di Capaci. Chi li vide, raccontò che, accanto a un disumano dolore, c’era una domanda inespressa che squarciava più del tritolo: dov’è Francesca? Quando il giudice arrivò in ospedale, un medico svenne per l’impatto emotivo. Gli altri appoggiarono il collega esanime al muro, con le gambe in aria per favorire la ripresa di conoscenza e si dedicarono all’impossibile. Cercarono tutto e tutto tentarono. Infine, ricucirono la ferita a stella sulla fronte del dottore Falcone. Un tenero gesto di pietà.
Ed è lì – a quell’immensità di lutti – che torni, osservando la testa del magistrato, in effigie, smozzicata, tanto da comunicare una indicibile tristezza. Un monumento, per chi non dimentica davvero, non offre freddezza; è la prosecuzione di una vita e del suo calore. Avresti voglia di sfiorarlo, perché risulta familiare come certi volti lontani negli album delle fotografie, pur di azzardare un contatto, un approdo lunare nel cielo sofferto e indistinto della separazione.
E ha fatto, certo, benissimo il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a recarsi quaggiù, con le sue misurate parole di sdegno e conforto, anticipando l’altrettanto sacrosanta visita della ministra all’Istruzione Valeria Fedeli, per ricordarci che la memoria è appunto una cosa viva. Un segnale di opportuna vicinanza che diventerà ancora più prezioso se ad esso seguiranno opere concrete. La trincea dell’antimafia – non il simulacro delle chiacchiere e del sensazionalismo mediatico, il confine vero – si presidia con un approfondito, incessante lavoro quotidiano di rammendo e di presenza.
Ma poi – tra fiori e fanfare – sono annidati anche loro: gli abitanti della città delle statue per cui una statua, in quanto tale, rappresenta solo un simbolo glorioso di morte. Il gelo è l’unica sintassi del ricordo che praticano. Da sempre, abbracciano il marmo e non sanno che farsene della carne.
Sono indifferenti camuffati da partecipi. Ci sono i servitori della retorica che si battono il petto per tre volte a Capaci e in via D’Amelio, nel cerimoniale prescritto degli anniversari. Per costoro le pupille delle statue non recano sussulti. Questa memoria è monumentale. Albeggia e tramonta nel perimetro delle parole di circostanza. E se narri che il dottore Falcone e il dottore Borsellino erano persone intessute anche di meravigliose debolezze, di guizzi ironici, di battute salaci, di errori – sì di errori -; se spieghi che il loro valore non discese dall’alto, ma era il raccolto di una semina quotidiana, di inciampi e di scelte, di tenerezze e di paura, di mogli e di figli, ecco, ci restano male. Perché hanno bisogno di profili marmorei, di un unico pezzo da venerare, di un palco per i discorsi ufficiali, di memorie spente che non disturbino la parata con l’accensione di un sentimento autentico.
Ci sono i furbetti della commozione. Hanno fazzoletti già macchiati di lacrime posticce. E all’ombra di una statua li sventolano per meglio mostrarsi, fingendo di appartarsi. Alcuni hanno fatto bene i conti, costruendo reputazioni e percorsi che magari sarebbero stati egualmente disponibili ma che hanno ricevuto un’accelerazione in forza di un’intimità con l’eroe che, ovviamente, l’interessato non potrebbe smentire. Altri, che non avevano né arte, né parte, sono decollati fino a un imprevisto successo.
E poi c’è la maggioranza degli smarriti, di coloro che vogliono bene a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino, a Francesca Morvillo, agli agenti che ne condivisero il destino, per quello che erano – e tantissimo erano – figli, padri, sorelle, uomini, donne, magistrati, servitori delle legge, fino al sacrificio. Ma in tanto mulinare di furbizia e di chiacchiere, di interessi e di proclami, si perdono. Non riescono a sviluppare una relazione di sguardi e respiri nella processione dei sepolcri imbiancati. Tale e talmente impenetrabile è la sordità che ha abdicato all’esistenza nella città delle statue.
Eppure, osservando la testa oltraggiata del busto di Giovanni Falcone – così candida, così indifesa – anche l’ipocrisia si dissolve con le sue bugie e col suo cinismo. Il marmo e il gesso sono cose sensibili; restituiscono alla giusta misura il corpo e l’anima di un uomo, che ancora amiamo, perché era un uomo. Ecco il più riuscito miracolo, l’eredità che non tramonta, del dottore Giovanni Falcone.