Nonostante la pubblicazione di un utilissimo libro sullo Statuto autonomistico del 1946 e su due testi costituzionali dell’Ottocento, nonostante la relativa presentazione fattane a metà marzo nello storico salone di quella che un tempo a Palermo si chiamava Biblioteca nazionale, rischia di passare pressoché inosservata una data fondamentale ma ignorata dai siciliani, quella del primo maggio 1812.
Fuori strada, ovviamente, chi pensa alla coincidenza con la festa del lavoro. Perché quel primo maggio di duecento anni fa nel grande salone di lettura della odierna Biblioteca centrale della Regione siciliana, nel monumentale edificio di corso Vittorio Emanuele, si riunì il Parlamento siciliano per scrivere la Costituzione approntata nella notte fra il 19 e il 20 luglio.
Una Costituzione che abolisce la tortura e la feudalità, che parla di libertà di stampa, impedisce ai candidati di offrire agli elettori “danaro, feste, pranzi o altro, sotto la pena… di nullità di elezione”, blocca l’accumulo di cariche pubbliche per “massimo due impieghi”… Ricorrenza dimenticata da un Paese che correttamente celebra l’Unità d’Italia senza però sapere che l’essenza della Costituzione repubblicana sulla quale nel 1948 si rifondò l’Italia ha solida base in una Carta nata e approvata in Sicilia duecento anni fa.
Eravamo nel Regno di Sicilia governato dai Borbone ai quali gli inglesi bloccarono un colpo di Stato e imposero di dar vita a una costituente. Con Francesco, succeduto al padre Ferdinando, pronto a convocare un “Generale straordinario Parlamento” che tirò fuori la modernissima Costituzione di taglio liberale, naturalmente sulla falsariga di quella inglese. Vero è che, appena quattro anni dopo, i Borbone cominciarono a ignorarla, ma il popolo siciliano per difenderla fece tre rivoluzioni dal 1820 al 1848, preparando così le basi sulle quali Garibaldi realizzò la spedizione dei Mille. La stessa poi svilita rispetto al suo spirito iniziale dalla centralizzazione di Cavour e dall’ordine di Vittorio Emanuele a Teano dove l’eroe dei due mondi pronunciò un “obbedisco” che sembrò un “subisco”.
Come per la prima pagina di storia siciliana qui accennata, la Costituzione del 1812, la gran parte dei siciliani poco sa su un’altra pagina “costituzionale”, maturata quattro giorni prima del plebiscito del 21 ottobre 1860. Potremmo sbizzarrirci con gli amici chiedendo informazioni sul “Consiglio straordinario di Stato” tenuto a Palermo per volontà del prodittatore Antonio Mordini, convinto che anche dopo il plebiscito di annessione sarebbe arrivata l’ora di discutere comunque tempi e modi dell’unione della Sicilia all’Italia.
Con questo obiettivo, sempre nello stesso salone della Biblioteca di corso Vittorio Emanuele, si riunì quel “Consiglio straordinario di Stato” composto da 37 giuristi, letterati e personalità capaci di dar vita a un testo che in tanti passaggi sembra la matrice originaria dello Statuto del 1946 e in qualche punto della stessa Costituzione repubblicana del 1948.
Una sorta di Statuto ante litteram, ignorato da Cavour e successori, come era stata ignorata la Costituzione del 1812. Nel testo dei 37 si parla addirittura di decentramento regionale, ma non per la sola Sicilia, suggerendo all’Italia che nasceva un ordinamento generale fondato sulle regioni: “Noi chiameremo regioni le grandi divisioni territoriali d’Italia…”.
Basti pensare che il principio, introddotto nella Carta del 1948, sarebbe stato attuato con l’istituzione delle regioni ordinarie solo nel 1975 per capire quanto larga fosse la visione di quei 37 cervelli di tenace concetto che per la Sicilia unita all’Italia proponevano di prevedere “piena competenza per tutti i lavori pubblici, la pubblica istruzione, la pubblica beneficienza, le istituzioni di credito operanti nell’ambito regionale…”. Fino all’indicazione di “una iscrizione nel Gran Libro del debito pubblico di un ‘Fondo speciale e straordinario’ per la creazione di un sistema di lavori pubblici…”. E’ la rivendicazione, nel 1860, di una riparazione del divario Nord-Sud che nello Statuto del 1946 diventerà il famoso e contestato “Articolo 38”.
Di questo si è parlato alla presentazione del libro appena edito da Rubettino col sostegno della Regione siciliana. Un libro collazionato dal soprintendente ai Beni culturali di Palermo Gaetano Gullo con una efficace prefazione di Francesco Renda, protagonista di tante battaglie per la libertà, storico di primo piano, pronto a mettere bene la concatenazione dei tre documenti, a partire dalla Costituzione del 1812.
Una lettura fondamentale che ci fa capire quanto fuorvianti siano le polemiche animate attorno a chi si batte per insegnare il siciliano nelle scuole. Ovvio che non si tratta di imparare il dialetto, ma di scandagliare la storia di un’isola che i giovani (e non solo) conoscono con troppe lacune. Colmarle è un dovere. Anche per mettere a confronto le larghe visioni di allora con l’odierna rovina. E si potrebbe cominciare il primo maggio dicendo agli italiani tutti che la loro storia non ha 150, ma 200 anni.