“La giustizia è un atto necessario d’amore”. Lo diceva Rosario, mentre sognava di diventare giudice, nella sua Canicattì. Rosario aveva scelto una strada perpendicolare a quella del padre e del nonno, entrambi noti avvocati. Lui aveva dichiarato il suo sogno ai suoi migliori anni: voleva fare il magistrato. Rosario Livatino sognava di essere giudice nella sua Sicilia, nella sua Agrigento, manomessa e devastata dalla guerra di mafia di quegli anni in cui Stidda e Cosa Nostra seminavano vittime. Sin da piccolo, la madre Rosalia gli aveva insegnato che nella vita quello che è importante non è sapere vincere, ma imparare a perdere e costruire una rivalsa degna. Questi ricordi, appartenuti al privato del giudice, ucciso il 21 settembre del ’90, ce li consegna suo cugino, don Giuseppe Livatino.
Rosario e Giuseppe hanno in comune la luce buona degli occhi e l’espressione pacata di chi nella vita ha scelto da quale parte stare. Don Giuseppe Livatino, che dirige la redazione agrigentina dell’emittente televisiva Telepace, aveva venticinque anni, quel ventuno settembre del 1990.
“Avevamo fondato un’associazione, la Tecnopolis, e quel giorno mi trovavo in sede, quando venne il mio amico Fausto. ‘Hanno sparato a Rosario’ mi disse, a bruciapelo. Mi sentii smarrito, lì per lì non compresi bene. Cominciammo a cercare conferme, affidandoci a decine di numeri telefonici. In quei tempi la comunicazione non era immediata come adesso. Alla fine la notizia ufficiale ce la diede un’emittente televisiva agrigentina. Rosario sarebbe stato presente a un convegno, che doveva svolgersi a Canicattì pochi giorni più tardi, per ricordare il giudice Saetta, anch’egli canicattinese. Rosario non fece in tempo e noi precipitammo nello sconforto di chi, dall’oggi al domani, sente di essere rimasto solo”.
Era l’inizio degli anni ‘90, uno spartiacque tra la guerra di mafia e quelle che sarebbero diventate le grandi sconfitte alla criminalità organizzata. Canicattì, in questo scenario, era un punto di riferimento della mafia agrigentina.
Voi giovani, vicini a Livatino, come reagiste?
“Ricordo che, da quel momento, l’attività della nostra associazione, che era nata con scopi sociali e culturali, si trasformò in un cantiere di sensibilizzazione antimafia. Cominciammo a organizzare convegni, il primo a un mese dalla morte di mio cugino. Era qualcosa di nuovo, per l’epoca. La mafia, in quel periodo, faceva paura anche solo a nominarla. Qualcuno ci avvertì: ‘state attenti, altrimenti correrete il rischio di fare il bis’. A parte un gruppetto di giovani carichi di ideali e legittime incoscienze, il resto della cittadina si strinse nel silenzio. Gli adulti, in particolare, non vedevano, non sentivano, non sapevano. Perfino la lapide, in ricordo di mio cugino, comparve sul palazzo del comune un anno dopo la morte, con un’iscrizione quanto più neutrale possibile. Finché killer e mandanti erano in libertà, la società dei grandi fece finta di non aver capito”.
E oggi, come si ricorda il giudice a Canicattì?
“E’ un ricordo, purtroppo, “anniversaristico”. Ogni anno, a settembre, si organizza qualcosa in sua memoria. In particolare, quest’anno, sarà celebrata una messa, nella parrocchia dove è cresciuto, quella di san Domenico. Per il resto, tutto è tiepido, come sempre. Gli hanno intitolato scuole, strade, ma questo serve davvero a qualcosa, per perpetuare la memoria di un uomo,che moriva proprio quando la mafia faceva paura a tutti?”.
Perché è morto Rosario Livatino?
“Rosario è stato un precursore. Ha aperto una grande varco investigativo, quello dei legami tra mafia, politica e imprenditoria. Al tempo, parlare di ministri, che finivano nel mirino delle procure, per vicende legate alla mafia, era un vero affronto al sistema. Rosario ebbe il coraggio di sfidare le leggi non scritte, che, secondo il suo parere, erano le principali artefici della segregazione della nostra isola. Quello, forse, è stato un errore che l’anti-tribunale mafioso non ha voluto perdonargli. La mafia, in quella circostanza, pensò di dare un segnale forte alla magistratura siciliana, credette che, con l’omicidio di Rosario, ci sarebbe stata una battuta d’arresto nelle procure. Che tutto sarebbe tornato alla tranquillità di una volta. Così non è stato. Anche il sacrificio di mio cugino ha contribuito a infiammare gli entusiasmi buoni di chi, come lui, crede che la giustizia sia un atto necessario d’amore”.
Com’era Rosario Livatino?
“Era semplicemente un uomo sereno. Viveva di punti fermi: la giustizia e la fede. Credeva in maniera viscerale in Dio e questo, sicuramente, gli dava la solidità necessaria per affrontare le paure e i rischi di cui era cosciente. Due anni prima della sua morte, quando scavava già nel cuore di tante inchieste importanti, volle ricevere il sacramento della cresima. In famiglia la cosa ci ha stranizzato. Solitamente, in Sicilia, o ti cresimi da ragazzino o alle soglie del matrimonio. Per Rosario non c’era alcuna delle due circostanze. Dopo la sua morte capimmo che il suo fu il desiderio di confermare la fede, in prossimità del sacrificio più grande”.
Chi gli è stato vicino, parla di santificazione del giudice?
“La chiesa ha in mano le carte di un possibile miracolo, da attribuire a Rosario. Una donna di Pavia guarì dal terribile morbo di Hodgkin, dopo che Rosario le apparve in sogno, preannunciandole il superamento totale della malattia. La chiesa vaglierà ogni cosa. Quello che ci incoraggia è sapere, però, che la parte più giovane dell’istituzione ecclesiastica, quella formata dai gruppi giovanili, l’anno venturo, in occasione del Giovaninfesta, ad Agrigento, presenterà Rosario come testimone della fede cristiana”.
Parliamo dei silenzi di Livatino, forse travisati. Qualcuno parla di lui come di un giudice fin troppo ligio al dovere.
“I suoi silenzi erano, per quanti all’altezza di comprenderli, molto più eloquenti di decine di discorsi. Rosario sceglieva di spendere le parole necessarie, consapevole che il parlare troppo, specie nel suo ruolo, fosse solo uno spreco. Lui era un giudice che si sforzava di essere giusto e non era sicuramente irretito da un senso del dovere gretto. Ci metteva sempre l’anima, anche nell’applicazione della legge. Basti pensare che lavorò, a ferragosto, per firmare l’ordine di scarcerazione a un detenuto. Pensava che un giorno di lavoro, sottratto al cuore dell’estate, valeva bene un giorno in più della libertà di un uomo”.
Cosa le manca di suo cugino?
“La sua maniera di trasmettere il bene. Con Rosario, per via dei suoi tanti impegni di lavoro, non ci vedevamo spesso. Le volte che capitava, però, era sempre un arricchimento. Lui trasmetteva, in maniera del tutto naturale, i valori che costituivano la sua vita stessa. Devo dire che parte delle scelte che ho fatte, le devo anche al suo esempio luminoso e di speranza”.
Don Giuseppe Livatino ci saluta, parlandoci di uno speciale giornalistico, che dedicherà a suo cugino e nel quale ha visto miscelarsi l’obiettività del mestiere, con le pulsazioni del cuore. Ci sorride e sembra assomigliare ancora di più al giudice che, Francesco Cossiga, definì “ragazzino”. Quell’accezione rimase dubbia per molti. Adesso in tanti, tra quelli che gli sono stati vicini, lo chiamano così, “il giudice ragazzino”, che, appunto,con il cuore di un ragazzino sfidò la mafia, i mafiosi e i benpensanti. Li sfidò in silenzio e forse rimase troppo solo, come quel giorno di settembre, di 19 anni fa, quando la mafia lo sorprese sulla statale 640, su un’utilitaria, senza neppure la scorta. E lui, don Giuseppe è pronto a giurarlo, di fronte ai killer, avrà ripetuto: la giustizia è un atto necessario d’amore.