L’avvocato Giovanni Norrito ha ricevuto una telefonata. Era di sabato sera. Dopo, sono arrivate le fotografie.”Io faccio il penalista – racconta – a certe cose ci sono abituato. Ma sono rimasto lo stesso sconvolto dalle immagini”. Gli scatti di un corpo di bimbo straziato e pieno di lividi. Il legale ci ha pensato su: “Non prendo mai clienti sospettati di maltrattamenti su bambini. Non difendo pedofili. Mi fa troppo schifo. In questo caso, ho riflettuto e ho accettato”. Perché, avvocato? “Perché sono convinto dell’innocenza della mia cliente”. La storia giudiziaria della mamma di Samuele è cominciata così.
Palazzo di giustizia nuovo, scale che si intrecciano a non finire, balaustre sul nulla che comunicano un abissale senso di vertigine. L’avvocato Giovanni Norrito attende il suo turno al terzo piano. Dietro una porta a vetri, da qualche parte, c’è la mamma di Samuele, la donna accusata di avere compiuto lo scempio di suo figlio in un vicolo dell’Albergheria. Percosse e droga. Intorno alla vicenda si è levato il coro sacrosanto dell’indignazione popolare. In tanti hanno già formulato una sentenza di irredimibile colpevolezza. Siamo andati a trovare il difensore della signora per dare spazio alla sua posizione legittima che scava un cunicolo di dubbio nel granito.
“Vede – dice il legale -. Ci sono degli atteggiamenti che non coincidono col quadro che si è fatto la gente di una madre violenta e snaturata. La signora, quando ha visto che il figlio non respirava quasi più, l’ha preso in braccio ed è uscita di casa, per strada, come impazzita. Non ha aspettato nemmeno l’arrivo dell’ambulanza. Diverse persone descrivono il ritratto di una donna fragile, sicuramente con problemi e con un notevole carico di stress, però, per esempio, capace di amore nei confronti dei suoi piccoli”. Al cronista risulta un particolare. Le titolari della struttura che ha ospitato un altro figlio della mamma di Samuele parlano di un rapporto di affetto e di attenzione. “Avete scritto – prosegue l’avvocato – che i parenti l’hanno rifiutata, quando c’era la possibilità di andare ai domiciliari, perché indignati del suo comportamento. Non è vero. Il padre non ha potuto accoglierla perché vive in una casa minuscola, ma le avrebbe aperto la porta. Me l’ha detto: ‘Avvocato, se avessi saputo che sarebbe rimasta in carcere, mi sarei sbattuto per trovarle un posto’. Un altro punto di merito, secondo me? La signora non ha mai accusato il suo compagno. Non l’ha mai coinvolto. Gli vuole bene. Forse, invece, sarebbe stato facile scaricare il fardello su di lui in un rimpallo di responsabilità”.
Norrito combatte la sua battaglia contro i mulini a vento. Non tenta di circuire l’interlocutore con qualche vecchio trucco da tribunale. Espone la sua logica: “La signora è confusa. Non ha nemmeno realizzato il peso che le è finito addosso. In carcere è trattata bene. Ha un ottimo rapporto con le altre detenute. Prima era da sola. Ora due ragazze hanno chiesto di essere messe in cella con lei”.
Dalla porta a vetri chiamano l’avvocato Norrito con un cenno. Si celebra l’udienza davanti al Tribunale della libertà: un appello della difesa contro un secondo ordine di carcerazione. “Voglio vederci chiaro – è il commiato del legale – e spero che la stampa non emetta sentenze di condanna prima dei giudici”.
Appena fuori dal palazzo di giustizia, non ci vuole troppo, anche a passo lento, per raggiungere il teatro della tragedia. Un vicolo sozzo dalle parti della stazione. All’imboccatura c’è il comitato elettorale di un candidato sindaco. Alla fine c’è il magazzino-lager, la casa dell’orrore, secondo abusata formula giornalistica da titolo. Samuele e i suoi fratelli abitavano qui. Ma la parola “orrore” non basta per immaginare questa Palermo di bambini e topi.