La parabola della Sicilcassa | Dall'empireo all'onta del crac - Live Sicilia

La parabola della Sicilcassa | Dall’empireo all’onta del crac

Nei anni Settanta un siciliano su cinque aveva un conto di risparmio nella Sicilcassa. Che, insieme con il Banco di Sicilia, era la più grande realtà creditizia dell'Isola. Poi il declino. Ecco perchè.

PALERMO – Un tempo fu il secondo istituto di credito della Sicilia. Orgoglio dell’economia del Sud, vanto dell’illuminata borghesia meridionale. Un tempo anche nei più sperduti comuni siciliani, insieme alla farmacia e al municipio, trovavi la Cassa di risparmio Vittorio Emanuele, più conosciuta come Sicilcassa, segno tangibile di una presenza che, oltre a governare la vita economica del territorio, si traduceva nella longa manus politica della “capitale” Palermo sulla periferia dell’impero. Un tempo, identificabile nei mitici anni Sessanta, la Sicilcassa fu protagonista di una forte ascesa con l’autorizzazione per la gestione del credito fondiario che la rese nei fatti la più importante Cassa di Risparmio italiana dopo la Cariplo. E negli anni Settanta un siciliano su cinque aveva un conto di risparmio in questa cassa.

Solo un istituto bancario? Niente affatto. Nel cosiddetto sentire comune, la Sicilcassa, insieme con il Banco di Sicilia, la più grande realtà creditizia dell’Isola, era una mano economico-politica che governava prestiti, mutui e fideiussioni; dispensava favori e concessioni, senza perdere mai di vista il peso elettorale del potente di turno. Un perfetto apparato da “Prima Repubblica”, con poltrone ambite e allettanti consulenze. Ma soprattutto, così come hanno messo nero su bianco ieri sera i giudici della seconda sezione del tribunale di Palermo, con generosi crediti concessi a noti imprenditori, tra i quali i Cavalieri del Lavoro di Catania, ma anche costruttori palermitani come Rosario Alfano e Gianni Ienna, entrambi condannati poi per mafia, anche se il primo ottenne la prescrizione. Una gestione che portò l’istituto di credito al tracollo: era il 1997 quando ne venne dichiarata l’insolvenza. Fu il disastro finanziario più grave dopo quello del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Una condanna a morte che scrisse la parola fine dopo 136 anni (era il 31 ottobre 1861 quando la Sicilcassa venne fondata con un capitale sociale di appena 42mila e 500 lire) a quella che in Sicilia era considerata una vera e propria istituzione (dagli anni 50, tra l’altro, era controllata dalla Regione).

Un destino che non si riuscì a bloccare neanche con la riforma del 1990, quanto l’istituto di credito venne trasformato in una società per azioni di proprietà dell’omonima Fondazione bancaria, con una ricapitalizzazione per ripianare i debiti da parte della Regione siciliana di circa 500 miliardi di lire.

Tutto inutile. Nel 1996, con 3.850 dipendenti, 245 sportelli, 11.000 miliardi di lire di depositi e altrettanti di impieghi, ma anche con 1.200 miliardi di deficit, la Sicilcassa venne messa in liquidazione dal governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e acquisita nel settembre 1997 dal Banco di Sicilia. Oggi ciò che rimane è un Fondo pensioni “anomalo”, perché senza una banca di riferimento, che gestisce un patrimonio immobiliare, messo all’asta, di 52 immobili sparsi tra Sicilia e Lazio tra edifici storici, residenziali, uffici, autorimesse e locali commerciali, con una valore di mercato pari a circa 400 milioni di euro. La partita è ancora alle battute iniziali. Ma quando verrà chiusa allora il sipario potrà calare per sempre.


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