Davide Enia è pazzo. Meno male, altrimenti non sarebbe un poeta. E noi che siamo pazzi – convinti di non esserlo – non potremmo, se egli fosse stupidamente normale, sentirci svelati e consolati dal suo contravveleno. La poesia di Davide non sta nelle parole o nella musica. E’ nel modo con cui riassume il senso in un gesto. E’ il suo corpo da zio separato dei Blues Brothers. Bisogna guardarlo per capire. Il mondo lo ammira in teatro e paga. Noi siamo fortunati. Ce lo guardiamo in redazione, quando passa a trovarci. Gratis. Avete mai sentito “L’uccello grifone”? E’ una storiella da due lire. Nel calderone di Davide diventa roba incandescente, da lacrime.
Il poeta Davide Enia soffre nel vestire i panni di se stesso. Cioè, non è dissimile dai residui abitatori di un’epoca inquieta, un’era eccentrica. Da noi lo stato in luogo provoca tormento invece di pace. Precari nel contratto e nello spirito che siamo, innamorati delle fughe e delle lucette intermittenti. L’ipotesi di una vita stabile ci terrorizza e la chiamiamo catena. Precari, sì, con la sindrome di Stoccolma, paghi della nostra pestilenza. Ognuno di noi cammina, rifiutando e agognando l’ipotesi di una felicità durevole. E ci perdiamo nella contraddizione. Non comprendiamo la direzione del dolore: soffriamo per ciò di cui non possiamo fare a meno. La gioia è un incidente di percorso, un miracolo, mai un’idea o un orizzonte, mai un oggetto da fabbricare con le mani. Rendiamo grazie alla politica, alle nostre tare, e all’eredità dei nostri padri.
Davide Enia ha unito il patema generazionale al lutto di Palermo. Le sue mani, le dita e la faccia che ritmano le parole, raccontano la sintesi dell’orribile col disperato. Stranieri in una terra straniera. Poi, magicamente, la narrazione dello scandalo della nostra epica-epoca si trasforma in sollievo e terapia, grazie alla bellezza. Un’altra strada è possibile. Perfino la gioia, se si aguzzano cuore e ingegno col temperamatite del coraggio.
Un matto così potrebbe diventare sindaco di Palermo, avendo vinto – sia pure con pochissimi voti – il premio metraforico del nostro gioco? Moralmente sì. Forse non saprebbe amministrare, ma per questa incombenza da incapaci ordinari basta banalmente qualsiasi cattivo politico. Davide ci darebbe la forza immateriale di un sogno collettivo da “primi cittadini”, nessuno escluso, che scava nel buio per raccogliere il fuoco da una sorgente inaspettata. Luce e lacrime tra le macerie.
Chi scrive lo sente fratello dei suoi giorni angusti e dei suoi giorni immensi. E non è necessario vedersi o telefonarsi per rinsaldare il legame. Fratello. Non a caso. Ci sono intellettuali che si credono padri e madri, ma non sono niente, perché l’amore semina altrove. Davide Enia è il pronto soccorso della bellezza. E’ il vicino di appartamento senza spocchia, col sale che non hai, con i fiammiferi che hai dimenticato. E’ lui il piccolo fratello di Palermo.