Forse l’uomo è davvero “un mostro incomprensibile” come lo definì Blaise Pascal. Forse è proprio vero che l’esigenza di distrazioni ci spinge a perdere di vista la realtà, che può apparire insostenibile, come spiegava il grande pensatore. Forse bisogna scomodare Pascal per capire la Sicilia e i siciliani in questi ultimi giorni di un anno sventurato e tragico. E la loro voglia di dibattere di ragazzine e Lamborghini, alberi di Natale sbilenchi e fontanelle kitsch erette al cospetto di antichi monumenti senza un apparente criterio. Tutta roba, sia chiaro, che si presta al piacere dello scambio dialettico e del confronto (ne abbiamo parlato anche noi, ci mancherebbe). E però, buttando un occhio all’agorà virtuale dei social, sembra incredibile come tutto questo possa occupare il dibattito pubblico lasciando sullo sfondo la fotografia che l’Istat ha fornito questa settimana di cosa è diventata e sta diventando la Sicilia. Una fotografia in cui c’è tutta la tragedia di una terra che ha perduto il futuro, affondata in una miseria presente, tangibile, calcolabile in numeri spietati. Di cui poco o nulla si parla.
E invece. Invece qui numeri dovrebbero toglierci il sonno. Dovrebbero marchiarsi nella mente di chiunque abbia una responsabilità qualsiasi come un monito spietato. Perché in quei numeri c’è tutto: tutto quello che non c’è e che non ci potrà essere se quei numeri non cambiano.
Sempre meno, sempre più senza futuro
C’è anzi tutto l’ipoteca sul futuro in quei numeri. Un futuro che non c’è. La Sicilia dei 5 milioni di abitanti non esiste più. La popolazione residente arriva a 4.875.290, 33.258 in meno rispetto al 2018. Come se fosse vaporizzata una media cittadina. E il trend è questo. Per la Svimez tra 50 anni saremo tre milioni e ottocentomila. La Sicilia si svuota. Palermo ha 10mila residenti in meno rispetto al 2011. Stiamo scomparendo a poco a poco e non ce ne accorgiamo, non ne parliamo, rassegnati alla desertificazione umana di un territorio. A Palermo i giovani sono 91mila, il 14 per cento della popolazione. Nel 1971 erano il 29 per cento. Gli anziani erano il 9 per cento allora e sono il 21,2 per cento oggi. Il crollo demografico è compensato solo in parte dagli immigrati, che sono pochi e senza i quali saremmo di meno e molto più vecchi. I nostri giovani sono tornati ad emigrare, ci hanno spiegato bene altri studi, e tra loro i più istruiti, quelli su cui le famiglie hanno investito più denaro per la formazione, soldi che andranno ad arricchire altri territori.
Istruzione e lavoro: chimere
Ci sono 48mila analfabeti in Sicilia, con picchi ad Agrigento ed Enna. Nella nostra regione più della metà della popolazione ha al massimo la licenza media (a Palermo più del 54 per cento). I diplomati sono meno di un milione e mezzo, i laureati meno di 400mila. Di lavoro non parliamo nemmeno: la Sicilia è fanalino di coda perché a fronte di un potenziale di forza lavoro che si attesta su un milione 981 mila, in cerca di occupazione sono 508.893. L’Isola è all’ultimo posto d’Italia per occupati, dietro Calabria e Campania. Il problema del lavoro riguarda di più le donne: soltanto il 25,3% delle siciliane ha un’occupazione, è il dato peggiore in Italia. A Palermo gli occupati sono il 34,2% della popolazione residente di 15 anni e più. Cioè, almeno ufficialmente due adulti su tre non lavorano.
I numeri e le cronache
Sono questi i numeri in cui maturano i fatti di cronaca con cui ci si deve confrontare. A partire dalle cronache giudiziarie che raccontano di presunti abboccamenti o peggio rapporti consolidati tra amministratori e politici di vaglia con mafiosoni e mafiosetti. Roba da far cadere le braccia, certo, pensando al prezzo di sangue pagato per lasciarsi alle spalle questi scenari. Ma con numeri da sottosviluppo come quelli enumerati sopra, davvero si può cadere dal pero scorgendo le effettive modalità di formazione del consenso in un territorio così devastato? Modalità di formazione del consenso cieche e sconsiderate che ovviamente in un permanente circolo vizioso alimentano altro sottosviluppo e altra devastazione. E che di ignoranza e povertà si nutrono, da sempre.
Il Covid poi ha calato il carico. Mettendo in ginocchio quel po’ di terziario su cui si reggeva la già depressa economia nostrana. Ma se un’emergenza di tali bibliche proporzioni come quella meridionale è sparita dal dibattito nazionale da anni ormai (anni in cui gli investimenti pubblici hanno premiato il Nord a scapito del Sud), è dura sperare che il treno del Recovery fund possa essere quello su cui salire per evitare di affondare definitivamente. Il tempo ce lo dirà: mal che vada, tra dieci anni, dovessimo essere ancora di meno, ancora più disoccupati, ancora meno scolarizzati e ancora più disperati, troveremo un albero di Natale o una fontanella sui cui sfogare la nostra frustrazione.