Le promesse di Lega e M5s | Ma i soldi non bastano - Live Sicilia

Le promesse di Lega e M5s | Ma i soldi non bastano

"Flat tax", reddito di cittadinanza e "quota 100" per andare in pensione: ma l'Ue vigila sul debito pubblico.

SEMAFORO RUSSO
di
4 min di lettura

Non dobbiamo registrare soltanto l’enorme crepa creatasi tra il M5s e la Lega con il difforme voto al Parlamento di Strasburgo, al di là dei risvolti pratici, nei confronti del regime liberticida e nepotista del premier ungherese Viktor Orbàn (M5s meritoriamente a favore delle sanzioni, Lega contraria) ma anche il duro monito del governatore della Bce Mario Draghi – impossibile accusarlo di “anti-italianismo” – rivolto al governo di Roma finora a suo giudizio prodigo unicamente di parole e per giunta dannose per l’economia del Paese.

C’è di più, l’addio ad alcune delle audaci promesse così come contenute nel cosiddetto “contratto” che ha consacrato, a causa di una legge elettorale sciagurata e delle innegabili responsabilità del Pd di Matteo Renzi, l’innaturale matrimonio tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Quelle promesse, nello specifico “flat tax”, reddito di cittadinanza e “quota 100” per andare in pensione, sarebbero costate, parliamo, ripeto, della formulazione originaria, ben 100 miliardi di euro, una montagna di soldi da stramazzare al suolo appena immaginata.

Non che ci volessero capacità da grandi economisti per capire da subito l’impraticabilità finanziaria eppure molti si sono in buona fede illusi; promesse che hanno fatto vincere le elezioni ai pentastellati in gara solitaria e, in misura minore, ai leghisti coalizzati con Forza Italia. Ma il ragionamento va oltre. Pur con il ridimensionamento delle pretese i costi per il superamento della “Fornero”, la riforma fiscale e i sussidi di povertà (reddito di cittadinanza o potenziamento del già vigente reddito di inclusione) ammonterebbero a circa 28 miliardi di euro se guardiamo alle richieste del M5s e a 23 miliardi se guardiamo a quelle della Lega. Sì perché, è opportuno precisarlo, i due azionisti di maggioranza vanno in ordine sparso tentando di arrivare al traguardo nel mantenimento dei rispettivi impegni presi dinanzi all’elettorato, purtroppo finanziariamente confliggenti, prima delle elezioni europee.

Ai pentastellati, sensibili ai problemi sociali, interessa maggiormente il reddito di cittadinanza (pronti a mettere in discussione l’Esecutivo sennò) per cercare di raggiungere nei sondaggi l’alleato/avversario Salvini – bravo ad alimentare il suo consenso su chiusura dei porti ai migranti, sicurezza e antieuropeismo – e per il quale chiedono un investimento di 10 miliardi di euro pretendendo un primo segnale entro il 2019; i leghisti puntano allo smantellamento della “Fornero” (rinunciando alla rivoluzione annunciata salatissima e “fermandosi” a una previsione di costo di circa 14 miliardi di euro).

Sulla “flat tax”, invece, entrambi sembrano avere abbandonato lo schema di partenza, sbilanciato oggettivamente a favore dei redditi alti, limitandosi a ritocchi delle aliquote fiscali, vedremo. Le entrate dai condoni in cantiere (chiamati provvedimenti di “pace fiscale”) anche nella massima estensione voluta dalla Lega (20 miliardi di introito presunto) sarebbero comunque “una tantum”. Insomma, si cercherà di raschiare il fondo del barile attraverso la manovra di bilancio tentando di dividersi alcuni miliardi a testa rastrellati qua e là.

In mezzo, assediato, il paziente e competente ministro dell’Economia Giovanni Tria che irritato dalle continue pressioni degli scapestrati compagni di viaggio ha dovuto perfino minacciare un suo passo indietro telefonando al casuale inquilino di Palazzo Chigi Giuseppe Conte. Ipotesi allarmante sicuramente temuta dal Quirinale, dalla stessa Bce e dalla Commissione europea, epilogo da non considerare per gli effetti devastanti che avrebbe sulla tenuta e credibilità complessiva del governo a ridosso della nota di aggiornamento del Def (documento di programmazione economica-finanziaria) e della legge di bilancio 2019.

Qui il punto dolente. Nel Def si deve indicare il rapporto tra deficit e Pil, da concordare con l’Europa. Questo rapporto è stato fissato all’1,6% concedendo una minima flessibilità che si traduce, in breve, nel recupero di circa 12 miliardi. Cifra, come si può notare, molto distante dai 23/28 miliardi necessari per mantenere, sebbene in parte, le promesse elettorali e comunque già impegnata per evitare l’aumento dell’Iva e per altre spese. Ecco perché il saggio Tria non si stanca di ripetere che bisogna operare con estrema cautela, nel rispetto dei vincoli di bilancio, con gradualità e scongiurando sobbalzi negativi dei mercati che dilaterebbero pericolosamente lo spread (cioè, in soldoni, sfiducia dei risparmiatori nel sistema Italia, innalzamento degli interessi da pagare con aumento del debito pubblico e difficoltà delle imprese e delle famiglie nel reperimento del denaro dalle banche a prezzo contenuto).

Francamente con la campagna elettorale permanente – al netto, in aggravamento, delle striscianti tentazioni di fare saltare il tavolo da parte di Salvini smanioso di capitalizzare il consenso in casa – e a pochi mesi dalle consultazioni europee la vedo complicata, non solo per Tria e il governo Conte ma soprattutto per gli italiani e le loro legittime aspettative.


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