Stai male. Hai paura. Ti senti solo. Pensi che potresti essere affetto da Coronavirus. Ti senti pure addosso lo stigma dell’untore. E’ il momento in cui devi trovare il coraggio di dirlo, di chiedere aiuto, di mettere in sicurezza te e gli altri. Ogni attimo di ritardo allarga la profondità di un rischio gravissimo.
Ci sono parole inappropriate che abbiamo usato, talvolta, nel racconto di una tremenda epidemia. Una è ‘infetto’. Un termine orrendo che sa di isolamento psicologico, che spoglia le persone della propria umanità. Non sei più un uomo, ma un sintomo. Ed è come se, dalla malattia, derivasse un qualche tipo di colpa che merita la lontananza: non solo il distanziamento necessario del corpo, ma l’esilio del cuore.
Nessuno è infetto. Nemmeno tu, casomai e speriamo di no, che hai qualche linea di febbre e una paura senza confini: che cosa faccio?, ti chiedi.
Devi seguire la trafila necessaria, devi parlare col medico che valuterà, non devi, in alcun modo, scegliere l’opzione del silenzio e dell’omissione. Non sei un potenziale ‘infetto’, sei un possibile malato. Non sei un sintomo, sei una persona che ha bisogno di sostegno. Alzare quel telefono che pesa come un macigno, lanciare un Sos, è un gesto che esprime il tuo diritto-dovere di cittadino alla Salute. Ma è soprattutto un atto d’amore. Per gli altri. E per te.