PALERMO – La sua testa cadde nel 2009. In pieno scandalo Amia l’allora consiglio di amministrazione guidato da Gaetano Lo Cicero decise di licenziare il dirigente Giuseppe La Rosa.
Nove anni e mezzo dopo una sentenza, ormai irrevocabile, ha stabilito che La Rosa fu messo alla porta in maniera illegittima. Non doveva essere licenziato e il Tribunale fallimentare gli ha riconosciuto 195 mila euro fra “indennità di mancato preavviso” e “indennità supplementare delle spettanze contrattuali di fine lavoro”. Il collegio presieduto da Giovanni D’Antoni ha ammesso La Rosa al passivo “in linea privilegiata” del fallimento dell’Amia travolta dai debiti, dando ragione agli avvocati Alba Tranchina e Giuseppe Bondì.
La vicenda fallimentare si è intrecciata con quella penale. Anche in questo caso è ormai definitiva la sentenza del processo che si è chiuso con assoluzioni e prescrizioni. Nasceva dall’inchiesta sulle cosiddette “spese pazze” dell’ex municipalizzata sulle cui ceneri è nata Rap. Secondo l’accusa, tra il 2005 e il 2007, dirigenti e funzionari si sarebbero fatti rimborsare non solo i biglietti aerei e la permanenza negli hotel degli Emirati Arabi, del Qatar e dell’Egitto, ma anche i pasti, le schede telefoniche, il minibar.
Le posizioni degli ex vertici dell’azienda – Enzo Galioto, Orazio Colimberti, Giuseppe La Rosa – era stata stralciata e trasferita a Caltanissetta perché un imputato, Tommaso Scanio aveva ricoperto il ruolo di vice procuratore onorario a Palermo.
Nel 2009 la commissione disciplinare di Amia passò al setaccio alcuni appalti, addebitando a La Rosa la responsabilità di averli aggiudicati. In un caso al dirigente veniva addirittura contestato di avere usato illegittimamente il timbro del direttore generale per autorizzare un pagamento da 178 mila euro. Una circostanza che, scrive il collegio fallimentare, è “rimasta del tutto sfornita di prova”.
Secondo il Tribunale, le contestazioni sono state tardive e gravemente generiche. E poi i pagamenti avevano ricevuto il via libera dal direttore generale e dal consiglio di amministrazione. Insomma, impossibile contestarli a La Rosa.
“Dopo nove anni di giudizi – spiega l’ex dirigente Amia, assistito nel processo penale dall’avvocato Nico Riccobene – mi libero di un’onta. C’era un’iniziale richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero, ma il giudice decise per l’imputazione coatta. Poi, arrivò il licenziamento. Sono divenuto il capro espiatorio dei mali dell’Amia. Il mio nome sbattuto in prima pagina sui media, la mia immagine distrutta. Per fortuna ho resistito e oggi mi libero di un peso”.