L'incubo dei compiti |e il vecchio patto perduto - Live Sicilia

L’incubo dei compiti |e il vecchio patto perduto

Figli murati vivi in casa, genitori disperati... Benvenuti alle medie. Ma a noi, tutto sommato, è andata più che bene.

Ebbene sì, lo confesso, posso aver fallato. In ballo c’era il questionario conclusivo del capitolo su soluzioni, composti, miscele e altre varie ed eventuali. Programma di scienza, prima media. Mio figlio finisce tardi con i compiti, il papà dà il cambio alla mamma nella fatica quotidiana. E scopre tutta la sua ignoranza. Ma s’è fatta una certa, e allora dai, tiriamo un po’ a indovinare sulle domande a risposta multipla, e che Dio ce la mandi buona. Qualcosa la avremo pure sbagliata quella volta, ma non abbiamo avuto conseguenze degne di nota. E devo dire, in tutta onestà, che le sedute serali di compiti, a casa mia sono un’eccezione alla regola. Sì, qualche ripasso di geografia la sera, magari, che mi fa ripensare ai miei ricordi scolastici, quando mi interrogavo, bambino, su cosa mai fosse questo foraggio di cui erano pieni i silos, senza trovare il coraggio di informarmi se non si trattasse di un refuso. E poco altro.

Dite voi, e giustamente forse, che ci vieni a raccontare a quest’ora della domenica? Il punto è che da un pezzo in Italia si dibatte di compiti o non compiti. Con appassionati interventi di padri disperati, a volte anche assai spassosi. Ho letto con gusto giorni fa la testimonianza di Mattia Feltri su La Stampa, il suo racconto dei pomeriggi da reclusa della figlia (e conseguentemente dei genitori, quando liberi) alle prese con lo spauracchio dei compiti delle medie. Lettura che ovviamente mi ha fatto ripensare alla temeraria disfida – condivisa a iosa su Facebook a settembre – del genitore ribelle che ha graziato il figlio dall’incombenza dei compiti per le vacanze rivendicando il diritto a godersi il mare col rampollo.

Leggo, mi rispecchio, fino a un certo punto, sorrido come ogni volta mi capita quando qualcosa mi fa pensare ai miei figli, e mi dico che tutto sommato a me e consorte ha detto bene. Perché, non vogliatecene genitori disperati, noi questa sciagura dei compiti, travolgente come l’uragano Matthew, in fondo non l’abbiamo vissuta. Il nostro primogenito è arrivato alla seconda media senza scontare un anno da recluso, senza ingobbirsi come il poeta di Recanati, dedicandosi anche a un bel po’ di sport e altri sollazzi, e portando a casa una pagella tutto sommato da festeggiare. Non lo so quanta parte del merito vada ai professori clementi, quanta alla sua rapidità nell’apprendere e quanta alla santa pazienza di mia moglie, vedova bianca con un marito murato in redazione.

E dire che preparati ci avevano preparati. Amici, cognati, conoscenti, annunciavano l’avvento dell’apocalisse come predicatori medievali del mille e non più mille: “Vedrete, alla media i compiti non finiscono mai!”. E lì tutti a preconizzare anni da internati, pomeriggi che si tramutano in sere col ceppo ai piedi imposto dal sadico prof. Un inferno. Posso dire una cosa? So far, so good, direbbero gli americani. Fin qui, tutto bene. Di ceppi non ne abbiamo visti. Certo, di compiti sì. Anche di quelli noiosissimi e snervanti. Ma d’altro canto, se sei sopravvissuto all’analisi grammaticale delle elementari, che porterebbe all’isteria pure il Dalai Lama, puoi rassegnarti alle espressioni e a Gregorio Magno senza troppi problemi.

In fondo, ogni tanto mi fermo e ricordo gli anni delle mie medie. Sì, non ho mai studiato tanto come allora, lo confesso. Don Anzalone, il nostro leggendario prof di matematica dai salesiani, ci faceva usare penne di tre colori diversi per risolvere le espressioni. Solo per quello ci perdevi un paio d’ore in più. Il nostro adorato professore Palmeri (ci si vede ancora dopo trent’anni, tanto lui è sempre lo stesso) in terza media, dopo averci asfaltato con tutto il Leopardi possibile, pensò bene di farci pure studiare un po’ di latino per prepararci al liceo. Fu un incubo. Eppure, mi sbaglierò, ma non ricordo mia madre o mio padre appesi alla sedia accanto alla mia, come crocerossine pietose, per tutto il giorno. E non ricordo nemmeno troppe nottate di studio matto o disperatissimo. Anzi, ricordo piuttosto di partite di pallone pomeridiane nei campi di via Sampolo e anche di qualche cartone animato di cui ho ancora stampate in mente le parole della sigla cantata da Cristina D’Avena. E insieme a questi, il ricordo della consapevolezza che quando i compiti ci fracassavano le… gioie, in fondo era quello solo l’ingranaggio di un gioco al quale si doveva stare. Anzi, al quale si doveva imparare a stare. E tutti, figli, prof e genitori, eravamo dogmaticamente convinti che anche a questo servisse la scuola. A capire che nella vita un po’ di fracassamento di… gioie spetta a tutti e devi esercitarti a mandarlo giù. Non so se oggi, fatta salva l’oasi felice della classe del mio primogenito, il mondo stregato dei compiti a casa sia davvero così cambiato precipitando in una dimensione da incubo. O se magari, non lo so, il punto è che genitori (sempre più lagnosi), figli e prof hanno rotto quel patto di ferro su cui si reggeva tutto l’impianto della scuola dell’epoca, quella santa alleanza in base alla quale, perdonerete l’estrema sintesi, se a scuola ti siluravano a casa poi c’era il resto. Non lo so, sono sincero. Così come non so come mai le nuove generazioni di studenti richiedono così tanto l’assidua presenza di un co-pilota in fase di compiti a casa, cosa che ai tempi miei non era la regola. E che, leggevo ieri in un articolo sul Corriere che citava studi internazionali, è una prassi che ai bambini non fa bene perché non ne sviluppa l’autonomia. Non lo so, ripeto. Potrei tirare a indovinare, come ho fatto con il questionario di chimica su composti e miscele. Ma non sempre la fortuna può aiutarti ad azzeccare la risposta esatta. Voi che ne dite?


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