CATANIA – E’ arrivata dopo sei ore di camera di consiglio la sentenza di condanna per i killer e i mandanti dell’omicidio di Luigi Ilardo, avvenuto una sera di maggio del 1996. Ergastolo per Giuseppe Piddu Madonia, Vincenzo Santapaola (figlio di Salvatore), Maurizio Zuccaro e Benedetto Cocimano. La presidente Rosa Anna Castagnola della Corte d’Assise di Catania ha letto il verdetto questo pomeriggio poco prima delle 16 nell’aula dedicata all’avvocato Serafino Famà davanti al pm Pasquale Pacifico e ai difensori degli imputati. Un processo che è durato diversi anni, con decine e decine di testi esaminati tra cui diversi collaboratori di giustizia palermitani e catanesi. Come Santo La Causa, che si è auto accusato di aver partecipato alle fasi organizzative del delitto dell’infiltrato del Ros. Il pentito infatti è stato processato con il rito abbreviato e condannato. Il teste chiave della Procura è stato il colonnello Michele Riccio che in due lunghissime udienze ha raccontato gli anni in cui Gino Ilardo aveva lavorato “da infiltrato” e confidente prima per la Dia e poi per il Ros. Il racconto arriva fino alla mattina del 10 maggio 1996, l’ultimo giorno in cui il colonnello vide “Oriente” vivo. Da lì a pochi giorni il cugino dell’imputato Giuseppe Madonia sarebbe dovuto entrare ufficialmente nel programma dei collaboratori di giustizia.
L’omicidio di Gino Ilardo è stato per quasi due decenni uno dei tanti delitti irrisolti. Ad un certo punto Eugenio Sturiale, diventato collaboratore di giustizia, racconta di aver assistito all’omicidio di via Quintino Sella. Luigi Ilardo ed Eugenio Sturiale erano nel 1996 vicini di casa. Secondo la versione del pentito, quella notte Benedetto Cocimano, Maurizio Signorino e Piero Giuffrida (deceduti, ndr) erano nel luogo del delitto proprio nel momento in cui arrivò la Mercedes con a bordo Luigi Ilardo. Durante il suo esame racconta cosa vide quella sera e il rumore del rimbombo dei colpi di pistola. Di quel 10 maggio 1996 parlerà anche la moglie e pentita Palma Biondi nel processo. Eugenio Sturiale aveva già raccontato le stesse cose quasi dieci anni prima al sottufficiale della Dia Mario Ravidà, che lo conferma durante il suo esame.
L’ordine di uccidere Gino Ilardo – secondo l’accusa – sarebbe partito dal carcere direttamente da Piddu Madonia che avrebbe dato il mandato ai Santapaola. In quel periodo era in corso il processo Orsa Maggiore, la Procura ipotizza che il boss di Caltanissetta e Enzo Santapaola (figlio di Salvatore, che fa da cerniera con l’esterno) sarebbero riusciti a comunicare durante le udienze. Il messaggio di uccidere sarebbe arrivato nelle mani di Santo La Causa, anche se Maurizio Zuccaro sarebbe stato già informato. Ad un certo punto ci sarebbe stato uno “spiffero” sull’imminente collaborazione di Luigi Ilardo e sarebbe stata necessaria un’accelerazione all’assassinio. Una collaborazione che il boss dei Madonia annuncia in un’incontro romano con tra l’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli e la pm Ida Principato. L’omicidio di Gino Ilardo avviene in un momento particolare della storia della mafia siciliana. Il pm Pasquale Pacifico nella sua lunga requisitoria ha fotografato lo scenario criminale e gli equilibri di Cosa nostra. Una cupola con due anime, da un lato la strategia stragista di Totò Riina con Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca e dall’altra Bernardo Provenzano, più riflessivo. “Di questa seconda frangia facevano parte Giuseppe Madonia e Gino Ilardo”, ha detto il sostituto procuratore nell’udienza del 25 gennaio 2017.
Per molti avvocati del collegio difensivo (l’avvocato Francesco Antille per Madonia, Giuseppe Rapisarda per Zuccaro, Salvatore Centorbi per Santapaola e Cocimano) i pentiti esaminati non sarebbero attendibili e le dichiarazioni sarebbero piene di insanabili contraddizioni. Oggi l’udienza si è aperta con le repliche dell’avvocato Centorbi che si è concentrato sulla credibilità di Eugenio Sturiale e la moglie Palma Biondi. Le ricostruzioni – secondo il difensore – presenterebbero insanabili contraddizioni e inoltre ci sarebbero degli elementi da cui potrebbe ipotizzare una concertazione delle affermazioni tra i due coniugi. Un quadro difensivo che fa presupporre il ricorso in appello. Fondamentale sarà leggere le motivazioni della sentenza. La Corte d’Assise ha fissato in novanta giorni il termine per il deposito.