CATANIA – Era il 9 novembre 1995 quando, intorno alle ore 21, veniva ucciso nei pressi del piazzale Sanzio a Catania l’avvocato Serafino Famà. L’uomo, quella sera in compagnia del collega Michele Ragonese, venne raggiunto da 6 colpi di Berretta calibro 7,65 dotata di silenziatore, che lo colpirono ripetutamente al volto e al torace. Vittima sacrificale della mafia e di uno dei suoi boss più pericolosi e vendicativi, Giuseppe Di Giacomo. Una storia tragica che non può essere dimenticata.
La svolta nelle complesse indagini arrivò qualche anno dopo l’omicidio, nei primi mesi del 1997, quando Alfio Giuffrida, in passato reggente del clan mafioso dei Laudani, manifestò la propria volontà di collaborare con la giustizia. Il boss dei “mussi i ficurinia” vuotò il sacco raccontando i retroscena dell’efferato delitto facendo nomi e cognomi dei responsabili del commando. A dare l’ordine di uccidere l’avvocato, rivelò Giuffrida, fu Giuseppe Di Giacomo, storico reggente fin dal 1990 dei Laudani.
Quest’ultimo dal 2008 è diventato anch’egli collaboratore di giustizia autoaccusandosi di svariati omicidi tra cui proprio quello del penalista catanese. L’avvocato Famà per il capomafia era “colpevole”, di non aver consentito la testimonianza, in un processo dov’era imputato, di Stella Corrado, moglie del cognato Michele Di Mauro (allora difeso dall’avvocato Famà) ma soprattutto amante del boss dei Laudani. I due nel settembre 1993 vennero sorpresi dalle forze dell’ordine in un casolare di Sant’Alfio (CT) mentre giacevano nello stesso letto. La testimonianza della donna nei piani del boss, era ritenuta fondamentale per essere scagionato dalle accuse nel processo in appello ma anche dalle ombre che gli affiliati gettavano sulla sua condotta “moralmente riprovevole”. La Corrado, che allora venne indicata come teste a discolpa da Tommaso Bonfiglio, avvocato di Di Giacomo, tuttavia si avvalse, seguendo la scelta difensiva dell’avvocato Famà, della facoltà di non rispondere in quanto congiunta di Di Mauro.
Alla mancata testimonianza, come scrissero i giudici nella sentenza, Di Giacomo reagì “come sapeva e poteva fare”. Dopo la condanna in appello, diede un duplice ordine. Abbandonare l’iniziale progetto di morte che doveva coinvolgere il proprio difensore, l’avvocato Bonfiglio reo di aver preteso troppi soldi e di aver raggiunto risultati non soddisfacenti. Di Giacomo, come hanno rivelato diversi testimoni, temeva venisse direttamente coinvolto nelle indagini successive all’omicidio poiché cliente dell’avvocato. Il boss dei Laudani a questo punto scelse di far uccidere il penalista Serafino Famà. L’ordine venne impartito dal carcere di Firenze in cui era detenuto, con il tramite dell’altro cognato Matteo Di Mauro. Nei piani del boss anche l’amante e mancata testimone doveva inizialmente morire, ma dopo l’operazione antimafia “Ficodindia 1” il piano saltò. “Le risultanze processuali – si legge nella sentenza – hanno dimostrato che il movente dell’omicidio va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell’attività professionale espletata dall’avvocato Famà”.
Il raccontò di Giuffrida non si limitò, come detto, alla sola individuazione del mandante del delitto. Ad essere elencati furono anche gli esecutori materiali che quella sera partirono alla volta di Catania dopo un summit in una stalla di Aci Bonaccorsi (CT). “Ad avvicinare e sparare – si legge nella sentenza di primo grado – furono Salvatore Catti e Salvatore Torrisi […] avevano preso parte all’agguato anche Fulvio Amante […] a bordo di un altro autoveicolo Mario Basile e Gaetano Gangi”. Il 21 ottobre 1997 ad essere ritrovata fu anche la pistola con cui venne commesso il delitto. I Carabinieri individuarono l’arma su indicazione di Giuffrida, all’interno di un parcheggio lungo la strada che collega Catania al centro urbano di San Gregorio.
Le condanne. Fulvio Amante, Salvatore Catti, Giuseppe Di Giacomo, Matteo Di Mauro, Camillo Fichera, Gaetano Gangi e Salvatori Torrisi sono stati condannati in primo grado e in appello all’ergastolo per omicidio volontario pluriaggravato. Mario Basile e Alfio Giuffrida a 18 anni.
Il “caso Ilardo”. L’avvocato Serafino Famà è stato recentemente oggetto di un ulteriore approfondimento investigativo nell’ambito dell’indagine della Procura di Catania sulla morte del confidente Luigi Ilardo. Il nome del penalista già nella sentenza di primo grado, era stato associato dall’ambiente mafioso della famiglia Santapaola, al nome di Ilardo. Quest’ultimo, la cui morte sarebbe stata ordinata dal cugino Piddu Madonia, venne indicato come il responsabile dell’omicidio del penalista catanese. Una “tragedia”, sapientemente orchestrata dai vertici della famiglia mafiosa catanese, per sviare le motivazioni reali che portarono all’omicidio Ilardo: quella di collaborare ufficialmente con la giustizia e svelare i segreti di Cosa nostra e i suoi intrecci con pezzi deviati delle istituzioni.