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Ma dov’è finita Palermo?

Dove è finita Palermo? Giuseppe Sottile ce lo spiega sul "Foglio". Con una risposta da brividi.
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Giuseppe Sottile

Cominciamo con un filino di retorica. Ma dov’è finita Palermo? Dov’è finita la città dei giardini e dei capricci barocchi, la città che i grandi viaggiatori ammiravano con occhi lucidi e insaziabili? Dov’è finita la Palermo felicissima alla quale Ibn Hamdis non aveva voluto strappare per ricordo neanche un fiore di gelsomino? “Vuote le mani ma pieni gli occhi del ricordo di lei”, si limitò a scrivere nel suo diario lo sventurato poeta costretto dai nuovi invasori a tornarsene nella sua Arabia infelice. Povera Palermo. Quella che c’era non c’è più; e quella che ancora resiste, affonda giorno dopo giorno in una palude di monnezza, di topi e di fetore. Chi la salverà?

Fine della retorica. Se alzi lo sguardo dalle cataste di rifiuti, abbandonate lì da un insopportabile sciopero dei netturbini, vedi che ogni muro è tappezzato da una promessa. Il 6 maggio si voterà per eleggere sindaco e consiglio comunale, e non c’è candidato che non cerchi di inviarti un suo messaggio di speranza. Leoluca Orlando, con grande sprezzo del pericolo e dell’inesorabile segno del tempo, ripropone se stesso. Non ripete lo slogan che negli anni Sessanta fu di Salvo Lima – “Palermo è bella, facciamola più bella” – ma non se ne allontana nemmeno troppo. Dice che Palermo può rinascere e che l’unico uomo in grado di garantire la resurrezione è proprio lui: perché “Luca il sindaco lo sa fare”.

Poi c’è Massimo Costa, poco più che trentenne, che con grande sprezzo del pericolo e delle vertigini è sceso in campo come sindaco del Terzo Polo ma dopo appena una settimana ha cambiato i compagni di viaggio e ora è il candidato amato e coccolato dal Pdl, dall’Udc e dal Grande Sud di Gianfranco Miccichè. Anche Costa invita alla speranza. E per differenziarsi da Leoluca getta il proprio entusiasmo oltre l’ostacolo e dice di credere fermamente nelle possibilità redentrici della “Palermo Volenterosa” e della “Palermo Ingegnosa”, strade obbligate della “Palermo Vivibile” che, prima o poi, verrà.

Dice che c’è un futuro a portata di mano anche Fabrizio Ferrandelli che, con sprezzo del pericolo e delle ombre cinesi che lo assediano, è il candidato del Pd e dei vendoliani di Sinistra e Libertà. Lui sa che mezzo Pd non lo sosterrà perché sospetta che dietro la sua faccina da bravo picciotto sceso dai rioni popolari per conquistare i quartieri borghesi della città, si gioca una guerra all’ultimo veleno tra i professionisti dell’antimafia. Ma da quando ha vinto le contestatissime primarie in contrapposizione a Rita Borsellino, il giovane Ferrandelli parla come se fosse già il sindaco di Palermo. Illustra programmi e provvedimenti amministrativi, annota i problemi e indica le soluzioni, elenca i disastri e, con il periodare suadente del piccolo profeta, puntualmente annuncia che la salvezza è vicina: questione di giorni e la Palermo che è bella sarà ancora più bella.

Ma c’è ancora posto per la speranza in questa città ricoperta da un tappeto immondo di rifiuti, paralizzata dai dipendenti della Gesip che l’amministrazione comunale non riesce più a pagare, martoriata ogni santo giorno dai disoccupati di tutta la Sicilia che vengono a protestare sotto il palazzo della Regione, immalinconita dai tanti cassintegrati costretti a ciabattare nei capannoni di aziende alle quali la crisi non garantisce più né un soldo né un mercato?

Se tra queste mura e tra questi monumenti ci fosse ancora spazio per una divagazione si potrebbe ricordare che la nave dipinta da Caspar David Friedrich, chiamata Speranza, è imprigionata in un universo di ghiaccio. La speranza di Palermo invece è imprigionata da tonnellate di spazzatura e dal fumo nero che, notte dopo notte, lentamente ammorba ogni palazzo, ogni casa e ogni stanza. Trovi roghi a ridosso degli ospedali e delle chiese, al fianco degli alberghi e dei ristoranti. E se non fosse per gli straccivendoli che saettano da un immondezzaio all’altro in cerca di rame, diresti che la Palermo di notte è diventata la rappresentazione teatrale del deserto che ormai la avvolge e la mortifica. I fuochi che divampano dal Cassaro a Ciaculli, da Ballarò a Pagliarelli, dalla Vucciria a Settecannoli non anneriscono solo i quartieri e le borgate della città. Non sfregiano solo i palazzi spagnoleschi di Casaprofessa dove Emma Salvo di Pietraganzili declamava Goethe in tedesco, povero Goethe. Aggrediscono anche tutto ciò che avrebbe potuto riportare Palermo a una soglia minima di civiltà. E’ inutile nasconderlo. Con i roghi della monnezza brucia in queste ore la credibilità della politica, l’affidabilità dei partiti, l’autorevolezza dell’antimafia.

Il professore Gesualdo Carabillò, professore emerito di sociologia applicata, è sempre stato un osservatore attento alle novità e non ha mai ceduto al pregiudizio; meno che meno al qualunquismo, mon Dieu. Ma se gli parli della campagna elettorale che vede in corsa Orlando, Costa e Ferrandelli tira fuori tutta la sua ironia, crudele e vorace: “Siamo di fronte a due piscialetto e a un leone sdentato”, dice.

E chi può dargli torto? Costa e Ferrandelli avrebbero potuto essere certamente le facce nuove, fresche e promettenti della politica. Ma al primo giro di valzer sono inciampati sulle tavole di un palcoscenico per loro troppo ruvido e scrostato. Massimo Costa, presidente regionale del Coni, nato e allevato tra le viscere del sottogoverno targato Pdl, era stato scelto dal Terzo Polo, che in Sicilia è in aperto e rancoroso conflitto con il partito di Berlusconi, proprio per fare un affronto (uno sgarro, si stava per dire) al Pdl.

Costa aveva accettato. Ma quando il suo amico e padrino, politicamente parlando, Francesco Cascio, presidente dell’Assemblea regionale, gli ha spiegato che il regista dell’operazione era Raffaele Lombardo, presidente della Regione, il giovane Costa ha avuto un improvviso rinsavimento e si è chiesto come mai il suo dirimpettaio, cioè Ferrandelli, fosse sostenuto all’interno del Pd proprio dai fedelissimi di Lombardo. Due più due non poteva che fare quattro: Lombardo, vecchia volpe della politica siciliana, voleva giocare su due tavoli e avere così la matematica certezza che, rouge o noir, alla fine della partita il sindaco di Palermo sarebbe stato comunque roba sua. Da qui le perplessità di Costa e la repentina giravolta con salto finale tra le braccia di Pdl e dell’Udc di Casini, ormai stanco e deluso della alleanza con il rapace Lombardo. “Roba da piscialetto, da ragazzino alla prime armi”, insiste Carabillò.

Fabrizio Ferrandelli, candidato del Pd, non è stato da meno. Lui era nato e cresciuto con l’Italia dei Valori e non aveva avuto altro leader se non Leoluca Orlando che del partito di Antonio Di Pietro è il portavoce nazionale. Ma nell’approssimarsi della campagna elettorale per le primarie a sinistra, Orlando si ritrovò all’improvviso vittima di una insopportabile incursione: di un abigeato, si direbbe se fossimo ancora nella selvaggia e spietata legge del feudo. Successe che Beppe Lumia, suo eterno e irriducibile rivale d’antimafia, gli “rubò” Ferrandelli al solo scopo di candidarlo frontalmente contro Rita Borsellino, sostenuta invece da Orlando. Di fatto scoppiava la guerra tra le due antimafie: da un lato quella chiacchierona e giustizialista del vecchio Leoluca, che da sindaco negli anni Ottanta sognava di trasformare Palermo in un immenso Ucciardone; e dall’altro lato quella più conciliante e segnatamente governativa di Lumia, sostenitore perinde ac cadaver del governo ribaltonista di Lombardo.

Alle primarie ha vinto Lumia: anche se per una manciata di voti, Ferrandelli ha sconfitto la Borsellino. Ma Orlando non ha sopportato l’oltraggio e, messo di fronte alla sfida dell’abigeato, ha deciso di andare ai materassi. Ha fatto saltare la vecchia regoletta secondo la quale chi vince le primarie diventa automaticamente il candidato di tutti ed è sceso personalmente in campo. Per sfidare non solo Ferrandelli. Ma soprattutto il singolare patto di ferro tra Lumia e Lombardo, “tra il professionista dell’antimafia e l’inquisito per mafia”.

Un gioco facile, quello di Orlando. Perché nel frattempo il gip di Catania, Luigi Barone, ha chiesto per il governatore della Sicilia e per il fratello Angelo, deputato alla Camera, l’imputazione coatta per concorso esterno in associazione mafiosa. Non solo. La decisione del giudice catanese ha rimestato verbali e intercettazioni che, secondo una prima valutazione della procura, confermano sì incontri e frequentazioni non certo commendevoli ma non raffigurano, al di là di ogni ragionevole dubbio, un coinvolgimento dei fratelli Lombardo negli affari delle cosche. Carte melmose, comunque. Che per Orlando, teorico del “sospetto come anticamera della verità”, diventeranno ben presto frecce avvelenate con le quali tenterà di infilzare uno dopo l’altro tutti componenti del cerchio magico che Lombardo ha costruito attorno a sé per dare alla propria giunta una forte connotazione antimafiosa: tra gli assessori ci sono due magistrati, Massimo Russo e Caterina Chinnici, quest’ultima figlia di un giudice istruttore assassinato dalle cosche nel luglio del 1983; e c’è pure un ex prefetto, Giosuè Marino. Con quali argomenti potranno difendersi da Orlando che li accusa di avere dato appoggio e copertura a “un Cuffaro senza cannoli”?

Povera antimafia. Se restasse ancora spazio per un altro filino di retorica, sarebbe forse il caso di ricordare su quale sangue e quali lutti questa città si era data – non senza fatiche, non senza contraddizioni – una coscienza antimafia. Si potrebbero ricordare le lacrime versate ai funerali di Giovanni Falcone; o lo strazio che, appena due mesi dopo, accompagnò alla tomba il feretro di Paolo Borsellino. Ma a che servirebbe? Il fuoco dell’indifferenza e della delusione – ecco l’altro rogo, forse il più devastante – rischia di avvolgere e travolgere anche la sacralità di memorie che appartengono in ogni caso a questa città. Perchè il tradimento di quel martirio e di quelle memorie non comprende solo il paradosso di un’antimafia che, al di là di ogni decenza, sostiene un presidente della Regione incagliato in un brutto processo per mafia. Nei labirinti della protesta e della militanza trovi con disgustosa sorpresa anche il fratello di una illustre vittima della mafia – non scriviamo il nome: caritas Christi urget nos – che per tre anni ha fatto da sgabello, garrulo e salivoso, a Massimo Ciancimino, il pataccaro che si era trasformato nel ventriloquo di suo padre, il terribile Vito Ciancimino, buon’anima, e in quanto tale veniva portato in giro per librerie e studi televisivi come “icona dell’antimafia”, come teste chiave di processi che avrebbero dovuto finalmente consegnarci la verità sulle nefandezze di un potere politico dalle origine opache se non addirittura criminali.

Chi fermerà i roghi della dissoluzione, chi fermerà il disincanto senza ritorno del professore Carabillò che, da sociologo e francesista, ti rivolge la stessa domanda che Louis Sébastien Mercier ripeteva con un gemito davanti alle rovine di Parigi: “Que deviendra Palerme?”. Già, che cosa diventerà questo meraviglioso “sommario dell’universo” che gli svevi e gli arabi e poi i normanni e poi gli spagnoli e poi i borboni hanno edificato attorno a Monte Pellegrino, tra la Conca d’Oro e il mare dell’Acquasanta, tra Monreale e la scogliera dell’Addaura?

Se hai la voglia di lanciare lo sguardo oltre la monnezza e ti chiedi dove sta la causa di quest’ultima emergenza palermitana, scopri facilmente che il disastro indossa la divisa di un’azienda municipalizzata chiamata Amia. Un carrozzone di dimensioni ciclopiche che la malapolitica ha trasformato in pascolo abusivo per gli affari più loschi e per le assunzioni più spudorate.

Nel fervore della campagna elettorale, ora che i magistrati hanno messo sotto inchiesta oltre centotrenta netturbini responsabili a loro avviso degli scioperi selvaggi, non c’è aspirante sindaco o consigliere comunale che non dia la colpa dello scempio e delle casse vuote a Diego Cammarata, il sindaco di centrodestra che ha amministrato la città negli ultimi dieci anni. Il quale, va da sé, si prende per intero le bastonate, quercia caduta accetta accetta, ma a condizione che gli si lasci dire quella che lui chiama la “radice del male”. Una radice profonda che, guarda caso, affonda negli anni in cui a palazzo delle Aquile spadroneggiava Leoluca Orlando, l’uomo che la Palermo misera e picaresca aveva universalmente battezzato ’u sinnac’ollando. “Viva Orlando e santa Rosalia”, gridavano questuanti e pagnottisti, intellettuali e muzzunara. E lui si ergeva, suadente e feroce, come paladino dei poveri contro i ricchi, come eroe dei puri e duri in eterna lotta col vasto mondo degli impuri che invece se ne stavano accovacciati nel ventre molle della mafia e della mezza mafia; cioè di quella politica che, per assicurarsi pace e consenso, si lasciava placidamente guidare, fiancheggiare e umiliare dai boss.

Aveva l’arroganza e la baldanza di un giovane leone Leoluca Orlando negli oltre dieci anni che, dal 1985, segnarono le sue sindacature. Un leone onnipotente. Al punto da potersi consentire quello che nessun predecessore era stato in grado di fare: l’assunzione di quasi ottomila precari. Un costo enorme, insostenibile, e tutto a carico del Comune. Tanto chi poteva contrastarlo? Se un impiegato o un oppositore tentava inopinatamente di sbarrargli la strada lui l’accusava di “fare il gioco della mafia” e lo trascinava per il bavero nella pozzanghera del sospetto. Ebbe persino l’ardire di sfidare Falcone, al quale rimproverò di “nascondere le prove nei cassetti”. Ed ebbe pure la sfrontatezza di tacciare pubblicamente come quaquaraqua uno scrittore mite e raffinato come Leonardo Sciascia, colpevole di avere scritto sul Corriere della Sera – ah, con quanta preveggenza – un articolo sui professionisti dell’antimafia.

Oggi, a trent’anni di distanza, ’u sinnac’ollando ci riprova. Ma dei bei tempi andati gli è rimasto il ciuffo sudaticcio appiccicato sulla fronte. Per il resto, ha ragione il professore Carabillò: è solo un leone sdentato. Senza offesa, per carità. Toothless lions era l’espressione con la quale i goodfellas di Brooklyn chiamavano i vecchi patriarchi siculoamericani; quelli che, dopo una vita vissuta temerariamente, si appartavano in una villetta di Ocean Parkway, confusi tra i canti russi e le preghiere degli ebrei ortodossi.

Riuscirà il vecchio Orlando a imporsi in questa nuova savana della politica e a riconquistare il suo regno? E’ probabile. Palermo, del resto, non ha altri leoni. Gli unici di cui ci si ricorda sono quelli, “lenti e attoniti”, intravisti in una notte di sogno da Bruno Barilli, poeta e librettista, forse suggestionato dalla dicitura frontale del tram che dal fiume Oreto arrivava fino a piazza Leoni, alle porte della Real Tenuta della Favorita. Erano belve dal “crine fosforescente” che si svegliavano al crepitio delle Pleiadi. Erano belve fatte apposta per notti d’amore e d’azzardo, per notti di soave delirio; per le notti leonine di una Palermo immaginaria, calda e arabeggiante. Ma soprattutto bella, incantata e senza monnezza.


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