Non saltano le teste, perché questa è Opra dei Pupi senza scimitarre, senza sangue, seppure con molti Gano di Maganza e passaggi da Roncisvalle. Ma parole, quelle sì. Parole a far duello, a contendere luoghi comuni: vuoti discorsi di pupi caduti nel ridicolo, come sopravvissuti alle fiamme, ai mille falò delle vanità e inutilità siciliane. E si sente che non ci credono neppure loro, paladini senza alcuna nobiltà, quando ingaggiano la sfida spesso retorica tra antimafia di maniera e mafia vestita di antimafia, al punto che tutti i pupi finiscono per rassomigliarsi.
La messa in scena del libro-evento di Pietrangelo Buttafuoco ‘Buttanissima Sicilia’ è messa in scena, appunto. Pantomima, farsa, tragedia senza grandiosità, tutta condita di disperazione e fame. Fame atavica degli attori – che come tutti i veri artisti sono sempre morti di fame – e fame presunta degli spettatori. Un grandinare di colpi e di trovate che Salvo Piparo realizza con la grandezza emaciata che è proprio sua: un sarcasmo sempre pronto a inclinare al pianto, al ghigno amaro. Un teatro in cui il posto dei paladini di Francia è ricoperto da controfigure più legnose, ma infiocchettate dei nastri del potere: Saro, Mastro Don Gesualdo, Totò Vasa Vasa, Mirello, protagonisti pomposi di una tragedia che poi è la tragedia della Sicilia abbandonata, vilipesa, saccheggiata.
Questa volta i ruoli si invertono e i pirati saccheggiatori hanno le piume dei paladini, contro i quali i saraceni disarmati possono sfogarsi solo di lacrime e risate. La Sicilia è terra che non sa mai riconoscere le sue tragedie, dice Piparo, passando dalla risata al alla smorfia, dall’accento accorato a quello melanconico. E ogni tragedia diventa varietà, spettacolo, baraccone, Opra dei Pupi, appunto, ma sgangherata e sgrammaticata come doveva e deve essere, fra durlindane di latta e fondali di carta. E i potenti, i vice dei viceré si muovono a scatti meccanici, con vocine in falsetto, mosse da operetta, rivelando l’anima di legno e perfino i fili che li comandano.
Presentato in anteprima al teatro Regina Margherita di Caltanissetta, nell’ambito della coraggiosa prima edizione della rassegna “Sicilia, dunque penso” (incontri letterari, degustazioni, fotografia e molto altro) ‘Buttanissima Sicilia’ ha riempito platea e palchi, con la gente fuori in attesa, perché tutti, avendo letto o sapendo del libro di Buttafuoco, volevano assistere all’attacco polemico a Rosario Crocetta nel cuore della “sua” provincia. Chi voleva sangue, chi voleva rissa, chi voleva il vetriolo del sarcasmo in qualche modo lo ha avuto, e se ne é tornato a casa soddisfatto.
Ma lo spettacolo – serrato, pieno di ritmo nei suoi sessanta minuti di trovate – è festa mobile nello spettacolo perenne della politica siciliana, perché sarà tentazione forte non cambiarlo strada facendo, sarà dura non cedere alla suggestione di non aggiungere qualcosa. Ora che ‘Buttanissima Sicilia’ è pronto per nuove piazze, per nuovi teatri, come si farà a perdere l’ultima battuta del protagonista esterno, dell’ispiratore, quel Saro Crocetta che nelle ore in cui Salvo Piparo, Costanza Licata e Rosemary Enea andavano in scena nel teatro di Caltanissetta, si inventava lo scontro sulle giacche del “forforoso” Leoluca Orlando?
A Buttafuoco toccherà spartire i diritti con il governatore di Sicilia per questo copione che si rinnova con boutade sempre più surreali, in un gioco di spericolato pirandellismo fra il teatro di dentro e il teatro di fuori, pieno di troppi personaggi in cerca d’autore. Ma lo spettacolo è anche qualcosa di più o di diverso dal libro, come è giusto che sia. Perché ci sono le ballate di Costanza Licata e Rosemary Enea che non sono semplice contrappunto, ma voci roche ed essenziali del popolo siciliano che seppure rassegnato non risparmia uno sberleffo ai potenti, pur sapendo che quei potenti sono il proprio specchio, deformato se si vuole, ma sempre specchio, lucidato a colpi di voti e di consensi.
E sono canti e ballate pieni di sfottò, di trovate linguistiche, inno reale della Sicilia di oggi (basti citare la tarantolata “Sasà, Sariddu, Peppino e Sesè”) che bisognerebbe far conoscere alle bande municipali dei nostri paesi per intonarle dietro le processioni nelle feste di santi, madonne e patroni. C’è di più, appunto. Chi conosce bene Palermo, come Peppino Sottile che con la sua regia ha cucito lo spettacolo, riesce a recuperare attorno all’invettiva di Buttafuoco la nota dolente e farsesca di una città capoluogo di una regione che si fa amabilmente violentare da secoli.
Dai saraceni, dai paladini, dai piemontesi, dal fascismo, dai bombardieri americani, dai politici dell’avantieri, di ieri e di oggi. E così il racconto di questa Buttanissima Sicilia sta dentro un discorso più vasto e più antico che si riconnette all’esperienza dei Travaglini di Palermo e ancor prima, nel recupero del poeta popolare Giuseppe Schiera, espressione popolare e sarcastica della Città Madre e Nera di Salvo Licata. Non è un caso che Peppino Sottile, nel ringraziamento finale dopo gli applausi, abbia individuato proprio in Peppe Schiera e in Salvo Licata i padri ideali di questa cantata della Sicilia che buttanissima era, è, e forse resterà. Come buttanissima è la fame, cantata, vezzeggiata, soprannominata in mille modi, di un popolo affamato che sempre cerca il pezzo di pane e un caputo di pasta, per riempiere la pancia. Più pasta per tutti, dunque.
A manate, a pugni, a secchiate, sparsa in platea, lanciata sugli spalti: ditalini, rigatoni, maccheroni. Pasta per il popolo di Sicilia che, pure oggi, ha la sua fame. E magari oggi non sarà non più fame di pasta, come lo era nelle ballate di Schiera e di Licata, osservatori partecipi della secolare fame dei lumpen palermitani, corte dei miracoli cinica e disincantata che può dubitare perfino dell’esistenza stessa della Sicilia (narrata in quel brano mirabile e poetico recitato da Salvo Piparo sul mare che scompare a Palermo, assenza trasformata in spettacolo, mentre con esso scompare pure la città e l’intera isola, racconto dietro al quale si intravede la mano di Salvo Ficarra e Valentino Picone). Non sarà più quella fame, magari, ma sempre fame resta. Magari di un po’ di giustizia, di un po’ di verità. E a non voler esagerare con i paroloni, lo spettacolo lo dice più brevemente: fame di un po’ di dignità.