Il tesoretto segreto di Brusca | Così il pentito voleva salvare i beni - Live Sicilia

Il tesoretto segreto di Brusca | Così il pentito voleva salvare i beni

Giovanni Brusca il giorno dell'arresto

ll boia di Totò Riina, che oggi è un collaboratore di giustizia, ha sempre tenuto dei contatti con il mondo esterno. Vi raccontiamo i retroscena del provvedimento dei giudici di Palermo che gli hanno sequestrato immobili che valgono un milione di euro.

MAFIA - MISURE DI PREVENZIONE
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PALERMO – Giovanni Brusca ci ha provato. Ha tentato di “salvare” il suo tesoretto segreto, sfuggito per decenni alla mannaia della confisca. Un gruzzolo da un milione di euro. Tanto valgono alcuni immobili fra Palermo e San Giuseppe Jato e gli affitti che avrebbe incassato negli anni. Sono tutti finiti sotto sequestro su decisione della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta da Silvana Saguto.

Perché il boia di Totò Riina, collaboratore di giustizia dal 1996, ha sempre tenuto dei contatti con il mondo esterno. Non è la prima volta che il boss pentito di San Giuseppe Jato viene “pizzicato” dagli investigatori mentre si occupa di affari e soldi. C’è da chiedersi quanto ancora ci sia da scoprire sul suo patrimonio. In realtà per un magazzino di via Saraceni qualcosa si è inceppato nella macchina giudiziaria. Sui locali di San Giuseppe Jato pendeva un provvedimento di confisca mai eseguito e così Brusca avrebbe percepito 400 euro al mese d’affitto da parte del cugino Giuseppe che lo avrebbe locato a terze persone, girando il canone mensile con una ricarica Postepay intestata alla moglie del collaboratore, Rosaria Cristiano. Nel febbraio 2014 Brusca aveva ammesso di avere dato i locali in gestione al cugino, ma sostenne di ricevere 50 euro al mese come “pensiero” per il figlio.

Sono tanti gli elementi raccolti dai carabinieri del nucleo investigativo del gruppo di Monreale. Ci sono le conversazioni fra la moglie del collaboratore e il cognato che le spiegava che “tutto quello che hai… tutto è di Giovanni…”. In uno degli immobili sono stati trovati degli effetti personali di Brusca, tra cui alcuni biglietti di invito per una festa familiare. Discorso a parte merita la casa che è stata sequestrata in via Pecori Giraldi, a Brancaccio. È un immobile simbolico visto che era stato utilizzato alcuni mesi come covo da Leoluca Bagaraella. A portare i poliziotti sul posto, nel luglio del 1979, fu il fiuto di Boris Giuliano. Fu una delle ultime operazioni condotte dell’allora capo della squadra Mobile prima di essere ammazzato pochi giorni dopo. I poliziotti che vi fecero irruzione vi trovarono armi, munizioni e un grosso quantitativo di eroina. L’immobile risulta intestato all’ex convivente del cognato di Brusca che però, nel 2010, scriveva al parente chiedendo di “riavere quel poco in tuo possesso”. Secondo gli inquirenti, il riferimento era al ricavato della vendita della casa.

Il pentito, dunque, ha cercato di salvare alcuni beni. Non è la prima volta che il suo nome torna alla ribalta della cronaca. Due anni fa fu assolto assieme al cugino Giuseppe dall’accusa di tentata violenza privata. L’ipotesi è che avesse cercato di riprendersi con le minacce due appartamenti in via Pitrè, a Palermo, intestati a due coniugi di Altofonte che erano stati suoi prestanome. All’inizio dell’inchiesta i reati ipotizzati erano l’intestazione fittizia di beni e la tentata estorsione aggravata. Il primo fu cancellato dalla prescrizione, mentre l’estorsione era stata derubricata in violenza privata. L’indagine era nata nel 2010 quando gli investigatori captarono la conversazione fra il cognato di Brusca con la moglie del pentito. I carabinieri passarono al setaccio la sua corrispondenza e trovarono una lettera indirizzata all’imprenditore Santo Sottile. I toni erano minacciosi. L’ex capomafia pretendeva la restituzione di diversi beni: “Divento una bestia più di quanto non lo sono stato nel mio passato”, “sono disposto ad arrivare fino in fondo, costi quel che costi, e non mi riferisco alle vie legali”. In Tribunale, però, l’accusa non resse. Successivamente gli trovarono in carcere una pendrive con le indicazioni per le ristrutturazioni di una casa a San Giuseppe Jato. Il suo programma di protezione traballò, ma alla fine fu perdonato.

 


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