In cella l'erede di Riina e Provenzano| I boss: "Uccidiamo Alfano come Kennedy" - Live Sicilia

In cella l’erede di Riina e Provenzano| I boss: “Uccidiamo Alfano come Kennedy”

Un frame del video delle intercettazioni

Blitz dei carabinieri a Corleone. Fermate sei persone, fra cui Rosario Lo Bue, il capomafia che pregava Dio e pascolava gli animali. Era stato assolto per un cavillo nel processo Perseo. Il clan cercava armi per un omicidio in progetto. Lo Voi: "Ma 'attentato' è un termine avanzato. Difficile che i boss sapessero di Kennedy". Nei dialoghi dei mafiosi di Chiusa Sclafani l'odio verso il ministro dell'Interno "colpevole" di avere inasprito il carcere duro.  La solidarietà del mondo politicoLe intercettazioni: "Come entra nel cancello non deve scappare" VIDEO

PALERMO – Classe 1953. Pastore di professione. Rosario Lo Bue incontrava i suoi uomini in campagna mentre pascolava gli animali e predicava la pace in nome di Dio. Il Dio al quale si rivolgeva con la costanza della preghiera. Forse nella speranza di guadagnarsi l’indulgenza, ricalcando il cliché di un rapporto distorto con la fede a cui i boss ci hanno spesso abituati.

Perché Rosario Lo Bue, dicono gli investigatori, è il nuovo capomafia di Corleone. Una mafia arcaica dove la presenza dei vecchi padrini – Bernardo Provenzano e Totò Riina – è ancora pesante, nei nomi di chi comandava e nei metodi con cui esercitano il potere. Si vive nel mito dei capimafia storici sepolti al 41 bis.

Forse è per questo che i boss di Chiusa Sclafani, piccolo paesino dell’entroterra palermitano, ce l’avevano a morte con Angelino Alfano. Senza sapere di essere intercettati si sfogavano rabbiosi. Volevano eliminare il ministro dell’Interno (“se c’è l’accordo gli ‘cafuddiamo’ una botta in testa”) perché lo consideravano responsabile dell’aggravamento del carcere duro che tanto li spaventa. Avrebbero riservargli la stessa tragica sorte toccata a John Fitzgerald Kennedy, il presidente degli Stati Uniti. Sull’omicidio di Dallas, avvenuto nel 1963, sostenevano addirittura che ci fosse la regia di Cosa nostra: Kennedy, così dicevano, aveva voltato le spalle ai boss italo-americani.

All’alba di stamani Lo Bue è finito in carcere assieme ad altre cinque persone: Pietro Pollichino (73 anni); Salvatore Pellitteri (38 anni); Salvatore Pellitteri (22 anni); Roberto Pellitteri (24 anni); Pellitteri (62 anni). Lo hanno ammanettato i carabinieri del Nucleo investigativo del Gruppo di Monreale e della compagnia di Corleone. Con lui sono finiti in cella gli uomini che avrebbe scelto per guidare il clan di Chiusa Sclafani, dove l’anziano capomafia, stanco e malato, si era defilato per fare largo ai giovani. È stato necessario un decreto urgente di fermo. Dalle intercettazioni è emersa, infatti, la ricerca di armi da parte di alcuni uomini del clan. E stamani nel corso del blitz i carabinieri hanno ritrovato un fucile e una pistola nascosti in campagna. Le microspie hanno captato frasi chiare che vengono legate alla programmazione di un omicidio su commissione. Una vicenda ancora oscura in cui avrebbe avuto un ruolo Paolo Masaracchia, considerato un boss di Palazzo Adriano, pure lui sottoposto all’autorità del capomafia di Corleone, e arrestato l’anno scorso in un altro blitz. Al momento non è stato possibile identificare l’obiettivo del piano di morte, ma è certo che due persone si erano rivolte alla mafia per sbarazzarsi di qualcuno e incassare l’eredità. E chissà, forse una parte del denaro per la macabra commissione sarebbe stata girata a un membro della famiglia Riina a cui, in passato, lo stesso Masaracchia avrebbe fatto avere del denaro.

L’indagine coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Sergio Demontis, Caterina Malagoli e Gaspare Spedale è un tuffo nel passato. Un passato che si fa presente.

Rosario Lo Bue è fratello di Calogero Giuseppe, arrestato nell’aprile del 2006 perché era uno dei “vivandieri” di Bernardo Provenzano, negli ultimi tempi della sua latitanza. Nei guai Rosario c’era finito la prima volta nel 1997, anche lui per avere aiutato il padrino a nascondersi. Ma è nel 2008, neri giorni del maxi blitz Perseo, che la sua figura emerge con prepotenza. Nel tentativo di ricostruire la Cupola a Corleone avevano deciso di schierarsi al fianco di Palermo. I viddani scendevano a patti con i palermitani che tre decenni prima Riina e Provenzano avevano spodestato con il piombo.

Gli investigatori erano convinti di avere raccolto prove a sufficienza per condannare Lo Bue. Quelle prove, però, crollarono sotto il peso di un vizio procedurale insuperabile. La Cassazione dichiarò nulli alcuni decreti di intercettazione e una decina di boss la fecero franca. Tra questi c’era Lo Bue.

“Allora, a Corleone c’ è lo zio Rosario Lo Bue… che è sano e pieno di vita… è stato messo lì da loro a rappresentare là…”, diceva un indagato di Perseo in quei brogliacci di trascrizioni ambientali divenuti carta straccia. A Lo Bue era stato affidato il compito di tenere lontano dai guai persino Giuseppe Salvatore Riina: “Il figlio del corto è a casa con l’obbligo di non uscire, di non andarsi a mischiare, e se si va a mischiare fuori c’è l’ ordine di Rosario (Lo Bue, ndr) di trattarlo male ai fini che se ne torna là… Tant’è che ora io… perché ci sono stati discorsi per adesso, e io l’ho precisato, tant’è che io adesso vado da sua madre, che siamo cugini, perché è una persona, sua madre… e lui di dentro non deve uscire, e non si deve immischiare al di fuori delle cose di casa sua”.

Non tutti, però, a Corleone negli ultimi tempi gradivano la gestione di Lo Bue. Si è riproposto vecchio scontro fra le due anime della mafia corleonese. Quella intransigente di Riina e quella moderata di Provenzano. Ecco perché c’era chi, come Masaracchia e Antonino Di Marco, altro presunto boss di Palazzo Adriano già detenuto, attendeva con ansia l’uscita dal carcere di Giovanni Grizzaffi, nipote di Totò u curtu, che nel 2018 finirà di scontare una lunghissima condanna. “Se ci fosse Totò…”, ripetevano spesso.

Ed invece c’era Lo Bue che predicava pace fra gli uomini e lo ribadiva ai pochi, pochissimi che avevano la possibilità di parlare con lui. Li incontrava in aperta campagna, in mezzo ai vigneti. Circostanza che ha reso difficilissimo il lavoro dei carabinieri.

Il blitz di oggi ci riporta indietro nel tempo ad una mafia rurale che a Corleone non ha mai lasciato il passo alla modernità. Non è casuale, dunque, che le indagini ci consegnino una questione legata alla terra che rischiò di fare saltare la pace. Totò Riina decideva persino quali animali e dove dovessero pascolare anche se i terreni appartenevano non erano suoi ma della Chiesa. Stiamo parlando delle campagna attorno al santuario di Maria Santissima del Rosario di Tagliavia lungo la strada che da Ficuzza conduce a Corleone.

Le microspie hanno captato la controversia fra Leoluca Lo Bue, figlio di Rosario, e Vincenzo Di Marco, fratello di Antonino. I Di Marco ne avevano parlato con “Rosario” da cui avrebbero appreso che della questione erano stati informati “Salvuccio”, “la signora” e “Franco”. Che vengono identificati in Giuseppe Salvatore Riina, che ha saldato il conto con la giustizia, Ninetta Bagarella, moglie di Riina, e Francesco Grizzaffi, altro nipote del padrino, oggi sorvegliato speciale. Grizzaffi è anche cognato di Rosario Lo Bue, visto che hanno sposato due sorelle. Lo Bue si era beccato i rimbrotti di Di Marco per non essere riuscito a trasmettere al figlio l’educazione dei “vecchi”. Alla fine Lo Bue avrebbe fatto un passo indietro, lasciando il diritto di pascolo ai Di Marco. Ma era lui a comandare a Corleone e a gestire anche i rapporti con il mandamento di San Giuseppe Jato e alcune famiglie mafiose dell’Agrigentino.

*Aggiornamento ore 12.40
“Mi pare improbabile immaginare che tre mafiosi del corleonese sapessero particolari sull’ omicidio del presidente Kennedy”. Così il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi ha commentato l’intercettazione tra due mafiosi che dicevano di volere eliminare il ministro Alfano come Kennedy, rivelando che il presidente degli Stati Uniti sarebbe stato ucciso da Cosa Nostra. “Parlare di un progetto di attentato nei confronti del ministro Alfano – ha aggiunto – è una espressione ‘avanzata’: siamo davanti a una conversazione tra soggetti che commentano criticamente le attività svolge dal ministro con riferimento al carcere duro, che è uno dei principali motivi di doglianza dei boss verso lo Stato”.

“Dico che è una espressione ‘avanzata’ perché c’è un riferimento alla possibilità di eseguire l’attentato quando ad Alfano fosse stata tolta la protezione, cosa che al momento non è pensabile”, ha aggiunto Lo Voi. “Certo – ha spiegato il procuratore – Alfano è ritenuto uno dei responsabili dell’inasprimento del carcere duro”. “Quello intercettato – ha concluso – è comunque uno sfogo di cui bisogna valutare il significato in quanto rappresenta una dura recriminazione della mafia nei confronti dello Stato e perché ci dice che i mafiosi liberi fanno propria una delle principali preoccupazioni dei capimafia detenuti a partire da Riina”.


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