PALERMO – Attorno non c’è più la rete di protezione. Solo medici, infermieri e agenti. Matteo Messina sta morendo solo. A metà del corridoio dell’edificio L4, al primo piano dell’Ospedale San Salvatore a L’Aquila, c’è un paravento. Tre pannelli piazzati davanti alla porta della stanza del capomafia segnano il confine oltre il quale neppure lo sguardo può spingersi.
A vigilare ci sono cinque poliziotti fra cui una donna. Il corridoio, fra il centro vaccinazioni e la Neuropsichiatria infantile, è lungo e buio. Filtra poca luce dalle finestre. Ad illuminarlo provvedono i grandi neon al soffitto.
Il Reparto detenuti è blindato. L’ingresso è sbarrato da una Jeep dell’esercito, una volante della polizia e un furgone della penitenziaria. Una quindicina di uomini in tutto. Messina Denaro non farà più ritorno in carcere. Il tumore al colon è in stato avanzato. Ormai gli vengono somministrate solo le cure per il dolore. Niente più chemioterapia. La malattia farà il suo inevitabile corso.
Non ci sono parenti a fargli visita. Nessuno, tranne la nipote Lorenza Guttadauro, che è anche il suo avvocato. A L’Aquila c’è pure la figlia che ha deciso di prendere il cognome del padre. Dopo 27 anni non porta più il cognome della madre, Alagna. Nei mesi padre e figlia si sono incontrati per la prima volta in carcere durante un colloquio. Un incontro preceduto da una serie di lettere con parole di affetto per il genitore. Li separava il vetro, come previsto per i detenuti al regime del carcere duro.
Il loro è stato un rapporto difficile. Complicato dalla latitanza e probabilmente dai dissidi che la ragazza ha avuto con le zie e la nonna. Ed è alle sorelle del latitante che la figlia aveva attribuito la scarsa considerazione mostrata dal padre nei suoi confronti. Ora il rapporto è ricucito. Le divergenze fanno parte del passato. Ora che le sue condizioni sono gravissime il capomafia ha deciso di non farsi vedere dalla figlia segnato nel corpo e anche nella mente. Alterna momenti di lucidità a lunghe fasi di smarrimento.