Menzogna di Stato. E’ il neologismo con cui i magistrati della procura di Palermo definiscono le accuse mosse nei confronti di Nicola Mancino, il potentissimo ex vicepresidente del Csm che è finito coinvolto nell’indagine sulla presunta trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra nel 1992. Dopo due anni di interrogatori tra Roma e Palermo, dopo la polemica infinita sull’incontro – mai ammesso e poi solo parzialmente concesso – con Paolo Borsellino al Viminale il primo luglio del ’92, alla fine ad inguaiare l’ex presidente del Senato è stata la sua deposizione al processo contro Mario Mori e Mauro Obinu, gli alti ufficiali del Ros finiti alla sbarra per la mancata cattura di Bernardo Provenzano.
E’ il 24 febbraio scorso e dopo un’udienza fiume lunga più di quattro ore, Mancino si allontana dall’aula parecchio infastidito: durante la sua deposizione è infatti entrato in contrasto a più riprese con l’accusa, rea di fare domande a suo avviso troppo “speciose”. Alla fine dell’udienza il pm Nino Di Matteo lascia intendere chiaramente che “qualcuno tra i membri delle istituzioni mente”. Quel qualcuno, secondo la procura, è proprio lui, l’uomo della sinistra Dc , fino a due anni fa ai vertici di palazzo dei Marescialli, oggi accusato di aver detto il falso con l’obbiettivo di assicurare l’impunità anche ad alti esponenti delle istituzioni.
Un’accusa pesante che però esclude la partecipazione “attiva” di Mancino alla trattativa. E’ forse per questo che l’ex ministro dell’Interno cerca oggi di vedere il bicchiere mezzo pieno della sua situazione giudiziaria. E da politico navigato non dimentica di sottolineare le piccole controversie sorte nella fase finale dell’indagine all’interno del pool coordinato da Antonio Ingroia. “Nelle conclusioni non unanimi della Procura della Repubblica di Palermo, dopo essere stato per alcuni anni su quotidiani e periodici sotto il peso infamante di averne preso parte, vedere totalmente esclusa ogni mia partecipazione alla cosiddetta trattativa mi ripaga solo parzialmente delle amarezze vissute e delle lancinanti sofferenze patite di giorno e di notte”.
Il riferimento diretto è al fatto che nell’avviso di conclusione delle indagini mancasse la firma del procuratore capo Francesco Messineo. Ufficialmente per un atto del genere il visto del procuratore capo non è obbligatorio . Ma dal pool di magistrati è uscito alla fine anche il pm Paolo Guido, che non condivideva le accuse contestate ad alcuni indagati. Soprattutto quelli eccellenti come per esempio lo stesso Mancino. Che dopo aver negato a più riprese l’esistenza di una trattativa adesso fa un mezzo passo indietro ammettendo che “non fu lo Stato a trattare, ma uomini e/o pezzi dello Stato non autorizzati. Non autorizzati certamente da me. Chiarirò in giudizio l’infondatezza dell’accusa di falsa testimonianza che mi viene mossa”. Come a dire: se ci fu trattativa lui non ne sapeva nulla.