Trattativa, serve sentenza giusta: non pro o contro Di Matteo - Live Sicilia

Trattativa, serve sentenza giusta: non pro o contro Di Matteo

Ogni processo penale ha un identico obiettivo, dal nome ambiguo e violento: Verità. Suo tramite si raggiunge lo scopo istituzionale del “fare giustizia”

La Corte d’Assise d’Appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, tra breve giudicherà gli imputati della Trattativa. E’ quel processo che Giovanni Fiandaca, scienziato del diritto penale, ha spiegato in punto di diritto – l’unico che possa avere rilevanza – perché non dovesse neanche iniziare, e che fu definito “una boiata pazzesca”. Ed è da molti mesi che giornalisti militanti, opinionisti, magistrati solidali si ingegnano, supponendo che sia giusto così, ad aggiungere tacchi a questa “nana”. Insomma, in tanti stanno provando a supportare l’Accusa tentando di suggestionare, cioè di essere gli “autori” di quei sei personaggi – i giudici popolari – ai quali è affidato il destino del processo d’appello. Certo, i due giudici togati saranno magna pars, ma pur sperando che vi possa essere un “giudice a Pellino”, i numeri potrebbero superare le ragioni del diritto e della ragione.
Ogni processo penale ha un identico obiettivo, dal nome ambiguo e violento: Verità. Suo tramite si raggiunge lo scopo istituzionale del “fare giustizia”. Ma mentre nel fare giustizia ci si può umanamente sbagliare, nel cercare la Verità non sono ammessi trucchi, anche nel senso di maquillage. Nel caso della Trattativa il belletto è sotto gli occhi di tutti, ed è conosciuto e stimato e soprattutto incolpevole. Anzi, innocente.

E’ il pm Nino Di Matteo la cui figura, sotto la spinta di giornali e televisioni, sembra ormai coincidere con quella della conferma in appello della sentenza di primo grado; come se la conferma della condanna fosse una forma di rispetto e protezione nei confronti di un magistrato che rispetto e protezione merita. E’ a questa dinamica ambigua che i sei personaggi – i giudici popolari – dovranno riuscire a sottrarsi, mirando invece a giudicare non in nome di Di Matteo, ma del Popolo italiano che rappresentano.
E’ stato emozionante, a questo proposito, sentire la richiesta dell’avvocato Roberto Saetta – parte civile per il Comune di Palermo – che, dopo avere ricordato che il proprio padre, Antonino Saetta, giudice in Sicilia, era stato ucciso, insieme con il figlio Stefano, dalla mafia, s’è affidato alla Corte, quindi anche ai sei giudici popolari, per sentenziare contro gli imputati soltanto ad una condizione: che non vi fosse alcun dubbio di colpevolezza rimasto irrisolto. Normale? Normale. Secondo Costituzione e Codice. Ma è emozionante se si pensa che qui la partita sembra essere diventata un’altra: la sentenza sarebbe, per taluni, pro o contro Di Matteo. E ciò non è normale, ma giuridicamente barbaro.
Sono in tanti i magistrati che, oltre a Di Matteo, hanno sostenuto l’Accusa in questo processo. Ma i “padri” sono altri. Quindi se meriti vanno attribuiti, questi sono di Antonino Ingroia e, soprattutto, di Guido Lo Forte e di Roberto Scarpinato che hanno pure mutato il capo d’imputazione: non collateralismo mafioso come l’empito di Ingroia aveva previsto, ma il più astratto attentato ad organo di governo etc.
A Di Matteo e agli altri pm si deve rispetto, ma questo non può superare quello che si deve alla Verità. E i sei personaggi è a quest’ultima che sono chiamati ad essere servitori. Lascino, quindi, a coloro che hanno provato ad essere i loro autori il vanto, se è un vanto, di avere provato a suggestionarli. E lascino al genio di Pirandello il garbuglio sulla Verità che, in un’aula di giustizia, non è quella affermata dalla Signora Frola nella sua ultima battuta nel “Così è (se vi pare)”: “Io sono colei che mi si crede”. No, alla Giustizia non può bastare.


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