PALERMO – Trentadue pagine con richiami ai verbali dell’assemblea costituente, all’ordinamento giuridico spagnolo e anglosassone, ma, soprattutto, ai precedenti e alle stesse sentenze della Corte costituzionale. La procura di Palermo si difende e contrattacca, rispondendo punto su punto al ricorso proposto dal Colle di fronte alla Consulta per conflitto d’attribuzione fra poteri dello Stato. La vicenda è quella delle intercettazioni nell’ambito dell’inchiesta sulla “trattativa” in cui è stato registrato anche Giorgio Napolitano, a colloquio con l’ex senatore Nicola Mancino. La memoria, redatta dai legali della Procura – Alessandro Pace, Giovanni Serges e Mario Serio – è stata trasmessa oggi alla Corte costituzionale. Ecco i passaggi principali.
Le telefonate. Sono 4 le conversazioni in cui è incisa la voce del presidente della Repubblica sulle 9.295 intercettate a Mancino in sei diversi numeri di telefono: tre fissi e tre cellulari. La prima è del 24 dicembre 2011, alle 9:40, della durata di 3 minuti. La seconda del 31 dicembre 2011, alle 08.48 (durata 6 minuti). Ambedue sono registrate in uscita da uno dei numeri di Mancino che, però, dal 26 gennaio seguente non sarà più ascoltato perché i magistrati palermitani, nonostante la richiesta della Dia, decideranno di non prorogare il decreto che autorizzava l’intercettazione.
La terza è del 13 gennaio 2012, alle ore 12.52 (4 minuti) mentre la quarta è del 6 febbraio 2012, ore 11.12 (5 minuti). L’ascolto di queste altre utenze durerà fino al maggio 2012 in virtù delle proroghe intermedie autorizzate dal gip.
Il precedente. Nella memoria della Procura viene svelato che il presidente Napolitano è già stato intercettato. Si tratta di due conversazioni registrate indirettamente, una nel 2009 e l’altra nel 2010, nel corso di due diverse indagini della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze. Si sottolinea come il comportamento del Capo dello Stato in quel caso è stato diverso, poiché non è stato sollevato alcun conflitto di fronte alla Consulta.
L’intercettazione indiretta. Il ricorso del Colle si fonda sul divieto disposto per legge di intercettare direttamente il presidente della Repubblica che si estende alle intercettazioni indirette non casuali, o a quelle indirette ma casuali. Napolitano – concordano le parti – è stato intercettato casualmente (lo proverebbe il numero di conversazioni) e “la tesi prospettata dall’Avvocatura generale dello Stato – scrivono i legali della Procura – circa il generale divieto di intercettare, anche casualmente, le conversazioni del Presidente della Repubblica” si scontra con un dato di fatto: un evento casuale non può essere né previsto né prevenibile.
L’immunità del Presidente. Buona parte della memoria mira a spiegare come, nel suo operato, la Procura non ha leso alcuna prerogativa costituzionale. Per farlo richiama la seduta del 24 ottobre 1947 dell’assemblea costituente, quando è stato respinto un emendamento che prevedeva l’improcedibilità nel corso del mandato presidenziale. “Una lacuna volontaria della Carta costituzionale” come fu allora definita dall’onorevole Mortati. A questo si aggiunge che, in casi diversi dall’alto tradimento e dall’attentato alla Costituzione, “il Parlamento in seduta comune debba dichiarare la propria incompetenza e trasmettere gli atti all’autorità giudiziaria ordinaria per il prosieguo dell’azione penali”. E si cita il caso di Francesco Cossiga, “ritenuto responsabile per diffamazione e condannato civilmente in procedimenti iniziati durante il suo mandato presidenziale”. Tutto ciò per dire che non esiste un “un’immunità assoluta” del Presidente della Repubblica che riguarda anche reati commessi al di fuori della sua funzione. “Una simile irresponsabilità – scrivono i legali della Procura – finirebbe invece per coincidere con la qualifica di ‘inviolabile’, che caratterizza il Sovrano nelle monarchie ancorché limitate: una inviolabilità che implicava la totale immunità dalla legge penale nonché dal diritto privato quanto a particolari rapporti”. In questo caso, infatti, “si sarebbe in presenza di una disparità di trattamento con gli altri cittadini”.
Viene preso ad esempio anche il caso della monarchia spagnola: “E’ ben vero – si legge negli atti – che ancora oggi si ritiene che l’inviolabilità del Re, nell’ordinamento spagnolo, ne escluda del tutto la responsabilità civile e penale anche extrafunzionale, e pertanto egli non può essere sottoposto né direttamente né indirettamente a ‘investigazione’ penale (ma non quando venga in gioco la sicurezza nazionale). Inoltre si ritiene in dottrina che una legittima intercettazione di una conversazione telefonica nella quale accidentalmente figuri il Re come mero interlocutore non equivale a ‘investigare la persona del Re’, e quindi la registrazione della conversazione ben potrebbe essere valutata dal giudice istruttore che ne ordinerà la distruzione solo se irrilevante ai fini delle indagini, mentre in caso contrario resterebbe agli atti qualora la sua distruzione possa danneggiare l’accusa oppure la difesa con conseguente violazione dell’art. 24 della Costituzione spagnola”.
L’azione penale. La Procura arriva a considerare che questo tipo di impostazione pregiudicherebbe l’esercizio dell’azione penale e “i magistrati sarebbero indotti, nel dubbio, ad astenersi dal disporre intercettazioni a carico di tutti coloro che, ancorché sottoposti ad indagine penale, potrebbero avere titolo, in ragione di attuali o pregressi rapporti o funzioni precedenti svolte, a comunicare direttamente con il Presidente della Repubblica”. In conclusione: “L’intercettazione della conversazione del Presidente della Repubblica che sia occasionale, del tutto involontaria, non evitabile e non prevenibile, non può, in ragione di tali sue caratteristiche, integrare, in sé, alcuna lesione di prerogative presidenziali quale che sia il contenuto della conversazione”. Per questo la Procura di Palermo chiede alla Consulta di respingere il ricorso e, in subordine, il rigetto nel merito.