I giornalisti nascono cannibali. Addentano pezzi di cose umane. Rubano ultimi sguardi, ultime parole. Tutto frullano nel taccuino per servire al lettore le pietanze calde della cronaca.
Noi rapiniamo gli altri dei loro affetti. Forse aveva ragione quel filosofo quando diceva che spargiamo veleno sull’uscio delle persone oneste.
I giornalisti invecchiano e diventano uomini. Capiamo che non importa quello che si scrive, ma quello che si vive e che ci rende ricchi di una dote inestimabile nel bene e nel male. Gli incontri non si dimenticano. Cresci e ti vengono addosso facce, spezzoni e sentimenti che riconsideri con tenerezza. Ricordi tutto.
Ora noi ricordiamo Mario Bignone, capo della Catturandi di Palermo, morto il 21 luglio di tre anni fa, alle quattro e trentacinque del mattino. Possiamo farlo grazie alle parole di Giovanna Geraci, la donna che lo sposò. E mancava già troppo poco. Lei ha accettato di chiacchierare con noi per non disperdere la luce chiara di un grande uomo che è stato un grande poliziotto.
Questa storia la raccontiamo per filo e per segno, con la voce della signora Giovanna che la narra, da qui, in prima persona.
“La cosa bella che ha fatto Mario è che non ci ha lasciato ultime parole, parole pesanti da portare addosso. Sapeva che stava per morire e ha scelto di non dire più nulla. Solo certi sguardi bellissimi e intensi. Mario aveva occhi parlanti, occhi si che spiegavano pure col silenzio”.
“Ci siamo conosciuti una sera, per caso. Io era a cena con una mia amica. Lui era nello stesso ristorante, seduto con un suo collega. Uomini prestanti e sicuri. Li abbiamo notati subito. E loro hanno notato noi. La mia amica ha cominciato a guardarli e a sorridere. Lei è espansiva, io no. Se qualcuno mi interessa, mi chiudo subito. Mario e il suo amico si sono avvicinati. Mi ha riaccompagnato, alla fine. Io da quel momento ho tartassato la mia amica, per uscire ancora insieme. C’è stata un’altra occasione. Rammento una lunghissima tavolata con Mario a capotavola. Sono riuscita a sedermi accanto a lui. Ero confusa, non conoscevo nessuno. Lui a un certo punto si è avvicinato e mi ha sussurrato all’orecchio qualcosa come: ‘sei bella’. Le mie ansie sono svanite. Mario mi ha sempre protetto, mi ha sempre tenuto dentro il suo amore. Mi ha sempre trattato da principessa”.
“Abitava sempre in attici. Gli piaceva stare in alto. Una volta mi disse che aveva paura dell’altezza. ‘E come mai stai nell’attico?’. ‘Perché amo le nuvole. Voglio stare vicino alle nuvole’. ‘Va bene, amore mio. Quando sarai sopra una nuvola, io ti rincorrerò’”.
“Ogni sera, alla fine del lavoro, mi portava qualcosa. Un fiore. Un biscotto. Era un uomo che non aveva mai tempo, ma per me lo trovava. Ho conservato i suoi sms. Non sono il classico ‘come stai?’. Erano messaggi dolci, intensi, pieni di tanto. Io li ho trascritti su un’agenda e li tengo con me”.
“Mario, quando rincasava, suonava il campanello, dopo avermi chiamata al telefono. Gli dicevo: ‘perché suoni se hai le chiavi?’. ‘Perché mi piace pensare che tu stia dietro la porta ad aspettarmi’. Non siamo mai rimasti intrappolati nella routine logorante delle coppie. Mi facevo bella, sapendo che sarebbe tornato. Mi batteva il cuore. Mario entrava, mi prendeva tra le braccia, accennando passi da ballare. C’era sempre musica in sottofondo. E mi dava quello che aveva nella mano per me. Cenavamo con le candele accese. Ogni cena era un evento inimitabile”.
“Era molto attento e paziente. Non mi sgridava mai, se combinavo qualche pasticcio. Rincasava con i segni del sui lavoro. Da vero capo, agiva sul campo. I suoi anfibi erano sporchi di fango e polvere. Io voglio salvare la sua memoria. Alcuni pensano a Mario perché ha catturato Nicchi e altri famosi latitanti. Tanti non lo lasciano, anche dopo la sua morte, perché hanno visto che uomo era. Non indossava la divisa. Non amava il vestito. Andava in giro con un maglione a collo alto. Era una persona semplice”.
“Sono orgogliosa di essergli stata accanto nell’ultimo respiro. Per mesi non ho dormito, aspettando la sua morte. I suoi ragazzi lo amavano. Una notte con lui c’era un omone grande e grosso e vedeva che non dormivo. ‘Perché non dormi?’. ‘Non posso dormire, se Mario non mi racconta una storia’. ‘Va bene, Giovanna, te la racconto io…’”.
“Alle quattro e trentadue del mattino il suo respiro è cambiato. Alle quattro e trentacinque la faccia di Mario era di un altro colore. Mi sono spaventata. Ho chiesto alla caposala: ‘che succede?’. Lei mi ha risposto: ‘Signora, è il colore della morte’”.
“Nell’ultimo viaggio in ambulanza, uno dei suoi ragazzi che era con lui ha aperto il finestrino davanti alla costa di Cefalù. Mario era un uomo libero. Amava il mare e il sole”.
Le parole di Giovanna finiscono qui.
I libri della cronaca ci raccontano la storia del dottor Mario Bignone, grande poliziotto, grande cacciatore di latitanti. Ma questa è un’altra storia, parallela.
Possiamo immaginarla con la leggerezza della fiaba, in bocca a un omone grande e grosso come un orco buono.
In questa storia c’è una nuvola e c’è una donna che vorrebbe rincorrerla per abbracciarla.
Possiamo sperare nell’impossibile. La speranza impossibile ha il nome più sincero dell’amore.
Possiamo sperare che, un giorno, quella nuvola ritorni sulla terra. In forma di pioggia.