PALERMO – “Io e Scotti fummo rimossi perché avevamo esagerato”. Lo ha detto l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, che sta deponendo al processo sulla trattativa Stato-mafia, spiegando la decisione di spostare lui e Vincenzo Scotti dai dicasteri della Giustizia e del Viminale a luglio del 1992. “Io mi impuntai”, ha detto ricordando il suo rifiuto di lasciare via Arenula. Secondo il teste c’era una chiara intenzione politica di punire l’azione antimafia sua e di Scotti: lo scioglimento di diversi Comuni, alla legislazione antiracket, a quella sui pentiti. Il particolare confermerebbe i sospetti dei magistrati che vedono al cambio al vertice del Viminale non una semplice decisione politica ma un segnale lanciato dallo Stato a Cosa nostra.
Ricordando quei convulsi mesi del 1992, a cavallo del delitto Lima: “Falcone mise subito in correlazione il pronunciamento della Cassazione sul maxiprocesso (fine gennaio 1992) con l’omicidio di Salvo Lima (marzo 1992). Dopo il delitto, Andreotti era impassibile, ma più pallido del solito. Era molto legato a lui. Cossiga era agitato. Disse: ‘ditemi se devo andare a Palermo a fare una scenata e io ci vado’. Voleva reagire. Credo che fece una dichiarazione molto dura. Falcone era preoccupato, allertato – ha ricordato – In quei mesi, Vincenzo Scotti, ministro dell’Interno, diramò una circolare ai prefetti parlando di allarme. Un allarme piuttosto generico, indeterminato. Quando io e Andreotti gli chiedemmo da dove veniva questa allerta, lui disse Ciolini, un faccendiere conosciuto come ‘pataccaro’, abbiamo sottovalutato il contenuto dell’allarme. L’impressione, da quei dispacci, era quella di una minaccia esterna. Comunque, non la prendemmo sul serio”.
“Nel 1991 da ministro della Giustizia chiamai Giovanni Falcone a dirigere la Direzione generale degli Affari penali del Ministero – ancora Martelli – perché a Palermo era isolato. Avevo avvertito che era un uomo in grosse difficoltà. Lo chiamai al ministero – ha aggiunto – perché in un incontro avvenuto anni prima, nel 1987, Falcone mi aveva molto colpito, non solo per la ‘lezione di mafia’ che mi impartì, ma per una sorta di intensità drammatica che emergeva della sua persona. C’era un senso di tensione e di pesantezza in quell’ufficio a Palermo”.
Ancora Martelli: “Nell’ottobre 1992 Liliana Ferraro mi disse di avere visto il capitano dei carabinieri De Donno, dopo il primo incontro a giugno, e che questi le aveva chiesto di agevolare alcuni colloqui investigativi tra mafiosi detenuti e il Ros e se c’erano impedimenti a che la procura generale rilasciasse il passaporto a Vito Ciancimino”. Questo racconto della Ferraro fece adirare l’ex ministro che disapprovava l’indipendenza del Ros: “Mi sembrava una cosa folle – ha proseguito – Per questo chiamai l’allora procuratore generale di Palermo Bruno Siclari esprimendogli la mia contrarietà alla storia del passaporto”.
Poi un nuovo ricordo: “Alla fine di giugno del ’92 la Ferraro, mi disse che aveva incontrato il capitano Giuseppe De Donno, allora braccio destro del colonnello Mario Mori, e che l’ufficiale le aveva riferito di avere preso contatti con il figlio di Ciancimino, Massimo, con lo scopo di incontrare il padre ‘per fermare le stragi’. Ferraro mi disse anche che De Donno cercava una ‘copertura politica’ a questi contatti. Io mi adirai . ha proseguito – perché trovavo una sorta di volontà di insubordinazione nella condotta dei carabinieri. Avevamo appena creato la Dia, che doveva coordinare il lavoro di tutte le forze di polizia e quindi non capivo perche’ il Ros agisse per conto proprio”. Martelli ha poi raccontato che Ferraro ne parlò con il giudice Paolo Borsellino. “Non c’era fiducia nell’allora procuratore Giammanco – ha spiegato l’ex ministro – e Borsellino era colui che aveva preso il testimone di Falcone”.