PALERMO – Non c’è settore della patologia umana che incontri il timoroso rispetto della popolazione come il cancro. Noi medici, spesso esitanti nella comunicazione della diagnosi, ci nascondiamo dietro il dito di pietosi sinonimi, come “eteroplasia”, o perifrasi, come “lesioni secondarie” riferite alle metastasi, per non usare termini, come “cancro” o “tumore maligno” che comunicano angoscia al solo pronunciarli. Persino nel dialetto siciliano, del cancro non si pronuncia neppure il nome, bensì il criptico “’ddu male”.
Mi trovo da alcuni decenni quasi tutti i giorni nella scomodissima posizione di chi è costretto per mestiere ad usare quella parola (o i suoi sinonimi caritatevoli) per informare un proprio simile, non importa se nel ruolo di paziente o congiunto. E penso sempre al fatto che, mentre costui per me è uno dei tanti, io sarò per sempre “quello che gliel’ha detto”. Sono costretto a barcamenarmi continuamente tra il rispetto della Legge che m’impone di chiedere al paziente di identificare le persone cui sono autorizzato a fornire notizie e la consuetudine che prevede, particolarmente dalle nostre parti, consigli di famiglia atti a deliberare quanta parte della dolorosa verità un paziente debba conoscere per bocca del proprio medico. Mi sono sempre chiesto se faccia più danno al paziente restare nel dubbio, magari con il sospetto che il proprio medico sia un incompetente o (peggio) lo stia prendendo in giro, oppure affrontare una verità invariabilmente associata ad un carico spesso insostenibile di dolore e angoscia per sé ed i propri familiari. E qualche volta ho anche svolto il ruolo dell’utile idiota nel gioco delle parti tra genitori che mi raccomandavano di lasciare all’oscuro i figli e figli che mi chiedevano di fare lo stesso verso il loro genitore malato.
L’angoscia associata alla diagnosi di cancro e lo sconvolgimento che ne deriva per le capacità di discernimento di chi ne è stato informato crea le premesse per il fenomeno delle terapie miracolistiche che, spesso in malafede, imbonitori di ogni sorta propongono a chi è alla disperata ricerca di “un gancio in mezzo al cielo” cui attaccarsi. M’è capitato pochi giorni fa con la figlia di un mio paziente che mi ha rivelato di aver consultato uno scienziato dell’ultim’ora sostenitore delle virtù antitumorali del bicarbonato di sodio: una situazione non nuova per me, che non sono più un novellino. Ci fu l’era del siero Bonifacio estratto dalle feci degli ovini. Poi ho vissuto quella degli infusi delle foglie di Aloe Vera, pianta di cui si narra una strage notturna all’Orto Botanico di Via Lincoln. Indi la MDB (multi-terapia Di Bella), dapprima oggetto di ricorrenti dibattiti nel salotto televisivo di Bruno Vespa e poi finita nell’oblio dopo la dimostrazione di inefficacia nelle sperimentazioni del Ministero della Salute. E oggi è il turno del veleno di scorpione che, a differenza del plebeo bicarbonato di sodio che mio nonno usava per curarsi la gastrite, almeno porta in sé il fascino esotico e rivoluzionario di Cuba.
Comprendo le motivazioni di chi si appiglia a qualsiasi cosa pur di coltivare una speranza e sarei, come tutti i Colleghi che combattono la mia stessa guerra a fianco dei pazienti, più che felice se qualcuno di questi rimedi funzionasse davvero. In fondo, anche la penicillina fu frutto di una scoperta casuale, di “serendipità”. Ma ritengo mio dovere di professionista affermare il principio che la ricerca sui farmaci passa attraverso procedure universali che prevedono rigorose fasi di determinazione di attività, tossicità e confronto con le terapie disponibili. Queste ricerche cliniche controllate hanno costi elevatissimi e spesso portano a risultati negativi, come dimostra il fatto che solo la minoranza tra i farmaci che superano la fase preclinica viene poi utilizzata in terapia. Purtroppo, il progressivo disimpegno dei Governi delle Nazioni-guida dalla ricerca medica a fronte dell’incremento esponenziale dei costi, ha quasi totalmente lasciato un settore così importante nelle mani delle multinazionali del farmaco. Devo dire che trovo insulso l’appellativo di “farmaci griffati” che viene spesso utilizzato per designare i prodotti di sintesi originale in opposizione ai “farmaci generici”. Come se una molecola che può salvare una vita potesse essere assimilata a una borsetta costosa di cui acquistare un economico succedaneo su una bancarella gestita da un extra-comunitario. È chiaro che le “griffe” del farmaco sono aziende private che hanno come scopo unico il profitto degli azionisti. E meno male che ci sono: perchè senza i loro investimenti che bilanciano la contrazione dei finanziamenti pubblici in ricerca, io e i miei Colleghi non avremmo alcuna possibilità di dare ai pazienti di domani maggiori speranze di quelle che diamo a quelli di oggi. Perché la ricerca medica è una cosa serissima e non può essere affidata ai ciarlatani. Come diceva Totò: “Alla faccia del bicarbonato di sodio”.