Mi voleva il papa - Live Sicilia

Mi voleva il papa

Il venditore di pensieri
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4 min di lettura

Nel 1986 fui incaricato dalla Rai di curare per cinque mesi la regia delle riprese tv del  primo Maxiprocesso.  Quindi frequentai ogni giorno il microcosmo di quell’aula. Mille storie e tante anime.
Luciano Liggio, astuto, estroverso ed esibizionista, mi intrattenne un giorno raccontandomi una barzelletta. Quella del piccolo contadino che avendo smarrito l’asino piangeva in silenzio nel suo letto e si chiedeva come dirlo al padre. Questi giaceva in intimità con la moglie nel letto accanto, separato dal figlioletto soltanto da una tenda. E quando l’uomo in estasi sussurrò che vedeva tutto il mondo, il bambino trovò la soluzione al proprio dramma asinesco: “Papà, a chi ci sì, viri si trovi ‘u sceccu… (Già che ci sei guarda se trovi l’asino…)”. Ridemmo. Ma fu un attimo. Liggio si scurì in viso, i suoi occhi si accesero d’ira. Con la mano mi invitò a scostarmi e urlò: “Signorina, qua dentro c’è gente che è in galera da dieci anni, si vergogni! Non si permetta più e si rivesta!”. La signorina, una giovane ed avvenente avvocatessa, assistente di un illustre principe del Foro, lì per una parte civile, trasalì. Diciamo finalmente trasalì. Era lei una delle presenze che, dato l’abbigliamento minimalista, io avevo qualche giorno prima, durante una pausa e come distrazione rilassante, messo  in gara tra gli operatori tv per l’inquadratura più indiscreta… E però tutti avevamo ritenuto fuori luogo quella vetrina e qualcuno glielo aveva fatto notare. Ma, sapete com’è, omnia munda mundis (per i puri tutto è puro). Tranne che per Liggio che, credo, conoscesse tutta la frase, completa di omnia mala malis (per i malvagi tutto è male).
Con Michele Greco, detto il papa, la conversazione verteva sempre sulle Scritture, sulla giustizia, sull’equità, anzi, diceva lui, sull’iniquità di quell’aula che immeritatamente ospitava il Crocifisso… Anche di letteratura parlammo e del mestiere dell’artista. Mi sorprese quando mi chiese di far conoscere al Cardinale Salvatore Pappalardo il suo desiderio di confessarsi con lui. Cercava un conforto o un momento tattico di notorietà positiva? Io girai la richiesta al sindaco Luca Orlando, perché ne parlasse con il destinatario. “Non è il momento”, mi disse dopo qualche giorno. Non ho mai saputo se fosse la risposta del Cardinale arcivescovo di Palermo o una altrui libera interpretazione del suo pensiero. Greco assorbì il diniego: “Era nel conto”, commentò. Dopo qualche giorno, un avvocato mi raggiunse in regia e mi disse che il “papa” desiderava parlarmi. Così il mattino dopo mi recai dinanzi alla sua gabbia. Greco si scusò per il disturbo arrecatomi e, chiamandomi “direttore”, termine in uso in anni lontani per indicare il regista, mi disse: “Io gli uomini li capisco dopo poche battute e lei è la persona giusta per un incarico delicato ed a cui tengo molto, fare da precettore a mio figlio. Sarei onorato di averla sabato a cena a casa mia, purtroppo io sarò assente…” e mi guardò con quegli occhi grandi, neri di carbone umido, seri. Disse proprio “precettore” e capite bene che non si trattava di una proposta ordinaria. Il figlio di Michele Greco, Giuseppe, desiderava imparare le regole della regia e della scrittura sceneggiata. In seguito, infatti, credo che abbia girato un paio di film. Ma in quel momento io non sentii dinanzi a me il papa della mafia, ma un papà preoccupato per il figlio, il figlio di un mafioso che vuol fare l’artista. Mi turbai e risposi, mentendo, che avrei guardato la mia agenda. Poi gli chiesi il numero telefonico del figlio. Mi ringraziò: “Non lo dimentichi”. Cercai subito il presidente della Corte d’assise, Alfonso Giordano, che commentò: “Lei, per il lavoro che fa, può frequentare chiunque. Ma, ci pensi, si tratta pur sempre di schizzetti di fango sui pantaloni, magari tra vent’anni le potrebbero costare caro…”. Da casa telefonai a Giuseppe Greco. Sapeva della proposta paterna, ma mi sembrò disponibile anche alla mia scusa mendace di altri impegni. “Me l’aspettavo – disse – non si preoccupi”. “Caso mai la richiamo”, conclusi e non mi stimai. Non parlai più con Michele Greco, ma dopo tre anni, a processo concluso, un avvocato mi disse di avere incontrato il papa all’ergastolo in un penitenziario. “Se conosce il direttore Sarullo gli chieda se ha dimenticato” gli aveva detto Greco. Io non ho mai dimenticato. E pur se la vita mi ha confermato quanto fosse sapiente il consiglio del presidente Giordano, non ho mai assorbito del tutto le ragioni ipocrite di quella mia saggia viltà.


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