"Mio marito ucciso come ad Ardea, ma io non odio nessuno"

“Mio marito ucciso come ad Ardea, ma io non odio nessuno”

La strage di Ardea, come quella di Aci Castello. E una donna che non potrà dimenticare mai.
LA STRAGE DI ACI CASTELLO
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PALERMO- “Mio marito è stato ucciso come ad Ardea. Quando ho sentito quello che era accaduto, dei bambini e di quell’uomo morti, probabilmente perché si sono trovati sulla strada di un malato, ho rivissuto lo stesso dolore”. Cerchiamo l’avvocato Silvia Raimondo e la ascoltiamo per sapere cosa significhi vedere cadere giù tutto e avere la forza di ricominciare. Lei ha perso suo marito, il sindaco di Aci Castello, Michele Toscano, in una giornata indimenticabile, per un lungo momento di follia. Altri hanno perso i loro cari. Quel paese incantato tra il mare e il vulcano non ha mai dimenticato. Come Ardea – dove un ragazzo con problemi ha fatto una strage – anche Aci Castello ha scontato il suo giorno di lacrime e sangue.

La strage di Aci Castello

Era il due maggio di diciotto anni fa, qui lo ripercorremmo frammento per frammento. Giuseppe Leotta, che tutti chiamano Pippo, passa alla storia come l’autore di un massacro. Per mano sua muoiono Giuseppe Castorina, 66 anni, pensionato, che prende il sole su una panchina. Il sindaco, Michele Toscano, 45 anni, medico, ginecologo. Sotto diversi colpi cadono Salvatore Li Volsi, 37 anni, lavoratore socialmente utile e due impiegate comunali Rita Mammino, 43 anni, e Maria Cappadonna, 34 anni. Infine, Pippo sequestra un automobilista, Annibale Caponnetto, agente di commercio. Si fa portare al santuario ‘Madonna delle Salute’ di Vittoria, in provincia di Ragusa. E si toglie la vita, proprio come Andrea Pignani, il pluriomicida di Ardea, barricato in casa.

“Una grande pena”

“Ho provato una grande pena – dice l’avvocato Raimondo – per le vittime, ma soffro anche per il ragazzo devastato che ha fatto tutto questo. Come Giuseppe: hai dentro qualcosa che ti rode e fuori sembri una persona normale. Leotta stava male e non se n’era accorto nessuno. Ho pensato a lui, a mio marito, a chi si trova nel posto sbagliato nel momento sbagliato. E per un dettaglio perde la vita. Oppure la perdi perché qualcuno ti crede responsabile di qualcosa che non hai commesso, con le sue paranoie e le sue manie”.

“Non odio”

Giuseppe… Silvia chiama per nome l’uomo che ha ucciso l’amore della sua vita. “Non l’ho mai odiato – spiega -, ne ho sempre provato pena. Per lui e pena per i suoi familiari. Credo che il papà di Giuseppe sia morto di crepacuore. Ora, sommessamente, vorrei dire, accostandomi con rispetto a chi soffre: non bisogna odiare, soprattutto se il dolore è provocato dalla follia. Io non odio. Mio figlio non odia. Era un bambino e mi chiedeva: ‘Mamma, perché quell’uomo voleva male a papà?’. Gli rispondevo: ‘Amore mio, non capiva nulla e non gli voleva male’. La sofferenza è innegabile. Noi non viviamo più ad Aci Castello, ma ogni volta che torno è una festa”.

L’amore di Silvia e Michele

Silvia e Michele si erano conosciuti nella magia di un lungomare di pietra lavica e gelsomini, in estate: “Mi sono innamorata di Michele che avevo tredici anni. Lui ne aveva diciassette. Mi affacciavo al balcone e, in strada, vedevo questo ragazzo alto, bellissimo, che tornava, piano piano dalla piazza. Me lo mangiavo con gli occhi. Lo osservavo fino a quando non rincasava. Una sera pure lui iniziò a guardarmi. Ci siamo fidanzati che avevo sedici anni. Quattordici anni di fidanzamento, quattordici di matrimonio. Eravamo sempre insieme, senza invasioni, senza pesantezza, con la libertà di cercarci…”. Chiediamo una foto prima dei saluti. “Aspetti che la cerco”. Eccola, è questa che vediamo tutti. E il profumo dei sorrisi arriva fino a qui.


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