SCANDICCI (FIRENZE) – “Un’informazione sensazionalistica e marginali settori della politica” hanno lavorato per “insinuare nel modo più gratuito il sospetto di interferenze, smentite da tutti gli interessati, da parte della presidenza della Repubblica”. E questo è inaccettabile al punto che il ricorso alla Consulta sulla liceità delle intercettazioni disposte dalla procura di Palermo è “una decisione obbligata per chi abbia giurato dinanzi al Parlamento di osservare lealmente la Costituzione”. Giorgio Napolitano mostra un’ira controllata mentre pronuncia queste parole nella nuova sede di Scandicci della scuola di formazione per giovani magistrati. Si vede che il capo dello Stato ha lungamente meditato prima di togliersi diversi sassolini dalle scarpe e confermare come mai, né lui ne il suo fidato consigliere Loris D’Ambrosio, abbiano fatto nulla per favorire Nicola Mancino.
Un luogo simbolico quello scelto dal presidente (l’ex manicomio di Castelpulci dove morì il poeta Dino Campana) per mettere la parola ‘fine’ ad una vicenda a suo avviso impazzita, che lo ha scosso profondamente sul piano personale e lo ha allarmato su quello istituzionale. Si è parlato molto oggi a Scandicci del ‘caso Mancino’ con tutti i suoi derivati tossici, i sospetti e le accuse di “interferenzà del Quirinale su una delle inchieste più delicate della storia repubblicana, la trattativa tra Stato e mafia per fermare le stragi degli anni novanta. I futuri magistrati raccolti alle porte di Firenze hanno trovato sulle loro sedie un volume con gli interventi del capo dello Stato in materia di giustizia. All’interno due ‘chicche’: la lettera inedita del suo fidatissimo consigliere giuridico, Loris D’Ambrosio, dopo le prime indiscrezioni sulle tante telefonate intercorse con Nicola Mancino, l’ex presidente del Senato indagato dai Pm di Palermo. E la risposta dello stesso Napolitano al suo collaboratore che dopo pochi giorni morì per un infarto.
Una mossa a sorpresa del Quirinale, resasi ancor più necessaria dopo l’urticante memoria difensiva della Procura di Palermo che, in estrema sintesi, leggeva il conflitto d’attribuzione presentato dal Quirinale come una richiesta più vicina a quella di un “sovrano” che di un presidente repubblicano. Dopo alcuni giorni di silenzio ecco la stoccata di ‘re Giorgio’: “l’affetto e la stima che le ho dimostrato in questi anni restano intangibili, neppure sfiorati dai tentativi di colpire lei per colpire me”, si legge nella risposta del presidente a D’Ambrosio, datata 19 giugno 2012. Il ‘sacrificio’ di D’Ambrosio non sarà inutile, sembra dire Napolitano in più passaggi del suo intervento. Come quando, proprio rendendo pubblico il carteggio, si fa ben capire quando anche ai vertici della magistratura fossero ben chiari “i contrasti” che crescevano tra le diverse procure che stanno indagando sulla trattativa Stato-mafia ed i suoi depistaggi.
D’Ambrosio scriveva a Napolitano solo un giorno prima, il 18 giugno, che tutti conoscevano “le criticità ed i gravi contrasti” tra le Procure ma che a questi “contrasti” nessuno riusciva a porvi “rimedio”. “Mi ha turbato leggere nei resoconti di un’audizione all’Antimafia le dichiarazioni di chi ammette che – aggiungeva D’Ambrosio – della cosiddetta trattativa Stato-mafia uffici giudiziari danno interpretazioni diversificate e spesso confliggenti, ma che ciò è fisiologicamente irrimediabile”. Quasi che ci fosse, generalizzata, un’inerzia colpevole ad affrontare di petto una situazione di fatto. E non importa se questo era poi uno dei problemi che sottolineava Mancino nelle sue agitate telefonate al Quirinale. “Le sue condotte sono state ineccepibili; e assolutamente obiettiva e puntuale è la sua denuncia dei comportamenti perversi e calunniosi – funzionali a un esercizio distorto del proprio ruolo – di quanti, magistrati giornalisti o politici, non esitano a prendere per bersaglio anche lei e me”, replicò subito Napolitano respingendo le dimissioni di D’Ambrosio.
Non è un caso quindi che il presidente abbia richiamato i magistrati a mostrare “senso della misura” e “assoluta imparzialità”. Ma soprattutto ad avere il coraggio di accettare una riforma della Giustizia che è ormai “un imperativo” per “una rinnovata efficienza del sistema giustizia”.