Patti etici, autocertificazioni, dichiarazioni giurate col doppio bacio sulle dita incrociate. Non bastano, evidentemente. Se n’è accorta stamattina, suo malgrado, Marianna Caronia, candidata sindaco di Palermo che parlava di schierare l’esercito nei seggi elettorali per evitare brogli. Le è toccato scoprire dal tg che un candidato della sua lista, non di una delle liste che la sostengono ma proprio della “sua” Amo Palermo, è finito dentro con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Accuse tutte da dimostrare, certo. Eppure, l’inchiesta palermitana svelerebbe dettagli inquietanti sull’andazzo politico nel comune di Misilmeri. E confermerebbe ancora una volta la capacità dei boss di insinuarsi nella politica e attraverso di essa nella gestione della cosa pubblica.
Dopo aver ricevuto una segnalazione anonima su Ganci, la Caronia, ha raccontato lei stessa a Livesicilia, aveva contattato la polizia “che non mi ha fatto sapere nulla. Mica gli posso fare l’esame del dna”, ha aggiunto sconfortata la candidata. Espresse un concetto simile un anno e mezzo fa Gianfranco Miccichè: “Sarebbe necessario un rapporto di maggiore collaborazione tra magistratura e politica – auspicò il leader di Grande Sud –. Io quando vado in giro incontro tante persone. Prima di ogni incontro ho tanti filtri ma non ho il mafia-detector in testa”.
È vero, i politici non hanno il “mafia-detector”. E la brutta sorpresa, in una terra complicata come questa, è sempre dietro l’angolo. È anche vero, però, che a nessuno come a un politico spetterebbe di conoscere a fondo il territorio. E di saperlo “annusare” meglio degli altri, evitando tutto ciò che anche lontanamente maleodora di poco chiaro. A un politico, insomma, e tanto più a un politico siciliano, si richiede una prudenza ancora maggiore di quella che generalmente deve accompagnare il buon padre di famiglia. Un discorso che vale ancora di più per chi, come nel caso della Caronia, si candida a una carica di governo. Per capirsi, forse col senno di poi in questo caso oltre alla denuncia una passeggiata a Misilmeri sarebbe stata utile.
La buona fede di chi può incappare in una scelta sfortunata certo si presume. Tanto più quando nell’occhio del ciclone finisce un candidato dal casellario giudiziario immacolato, a carico del quale fino a quel punto gravava solo un “si dice” o la generica accusa di una lettera anonima. Ma in una regione in cui i Comuni sciolti per mafia non si contano più, pur volendo lasciare in soffitta il sospetto “anticamera della verità”, ci sono decisioni che lasciano perplessi. Tanto per fare un esempio, tornando alla citazione di Miccichè, si può dire che la scelta di candidare al consiglio comunale con Grande Sud il giovane figlio del deputato regionale Franco Mineo, mentre il padre sotto processo si difende dall’accusa di essere prestanome di un boss, offre il fianco a critiche di inopportunità anche senza scomodare il mafia-detector?
Resta sullo sfondo un dato. Ed è quello che Claudio Reale ha messo in evidenza nel suo articolo sull’exploit elettorale del candidato al consiglio elettorale di Misilmeri raggiunto oggi dall’avviso di garanzia. È una vecchia storia e sta lì il problema di fondo, nelle modalità di creazione del consenso, o meglio, per guardare l’altra faccia della medaglia, nel modo in cui i siciliani, o per lo meno tanti siciliani, decidono di disporre del proprio voto. Fin quando il criterio di scelta del nome su cui apporre la crocetta resterà ancorato a pratiche clientelari, se non a qualcosa di peggio, non ci saranno codici etici, casellari giudiziari e mafia-detector che tengano. Perché sono gli elettori, e non i partiti, ad avere in mano lo strumento per affrancare le istituzioni dagli impresentabili che fino a oggi hanno spedito a rappresentarli. E quello strumento si chiama voto.