Niente di meglio che vedere lo straordinario The Artist, film muto sul film muto, nostalgicamente in bianco e nero, in un vecchio cinema di periferia, meglio ancora se in provincia. Immaginiamo compiaciuti sedie cigolanti col velluto rabberciato, un cinefilo d’antan al botteghino e l’odore acre di umidità dalle pareti: un’esperienza estetica tanto vintage da far invidia a Peppuccio Tornatore.
L’occasione si presenta durante le sonnacchiose feste natalizie, quando nel corso di un piccolo giro per la Sicilia orientale scopriamo che in una sala fuori mano, una quindicina di chilometri dalla città più vicina, danno proprio questo film. Solo a trovarla col Gps ci metto mezzora, un posto inerpicato fra i colli, strada buia e ventosa, manco un cane per strada. Arrivati là, troviamo la serranda abbassata e la strada buia e desolata. Gli astanti al bar rassicurano che il luogo è quello giusto, e allora aspettiamo all’addiaccio, unici due aspiranti spettatori, pregustando – illusi – ciò che ci aspetta.
Quando finalmente il gestore ci fa accomodare, compunto come un bancario alle prime armi, si mette l’aria più professionale che può e ci chiede: “sala o tribuna?”. “Mah, faccia lei, non c’è nessuno”, replico sorridendo. Lui si irrigidisce, prova a celare l’incazzatura, e precisa: “È per i posti numerati. Non vi preoccupate, vi do i migliori”. Capisco che è meglio tacere, allungo i soldi e ritiro i biglietti. Entrando nella sala deserta e gelida, tutto è impeccabile: pavimenti lustri, pareti inappuntabili, sedili con la stoffa profumata e, soprattutto, rigorosamente numerati per fila e seduta. Altro che esperienza vintage. Sembra di essere in una multisala da centro commerciale.
Raggiungiamo i sedili G5 e G6, proprio al centro, di quelli che puoi allungare i piedi e guardare lo schermo senza nessuna testa di spilungone che si agita davanti a te. “Effettivamente sono i posti migliori”, commentiamo inorgogliti, posando capotti e borse ai lati della nostra posizione – è il caso di dirlo – esclusiva. Ma dopo pochi minuti entrano due persone, anch’esse col biglietto numerato in mano e… vengono a sedersi vicino a noi. Non vicino per modo di dire, ma proprio attaccati, nel senso che ci chiedono di spostare i nostri effetti personali per accomodarsi nel posto dove li avevamo appoggiati e condividere i nostri braccioli, mescolando il fiato delle nostre bocche con il loro. “Ci hanno assegnato questi sedili”, si giustificano serissimi. Passa qualche altro minuto e succede la stessa cosa dall’altro lato. Il tipo alla cassa, pignolo e vendicativo, ha colpito duro.
Ecco allora – al momento in cui si fa buio e parte il film – sei persone, tre coppie fra loro sconosciute, sedute vicino-vicino-vicino mentre tutto il resto della sala è vuota. Io voglio cambiare posto, ma la situazione mi intimidisce. E desisto. Poggio il cappotto nel sedile davanti, un po’ distante, e i quattro mi guardano male. Lo riprendo, lo piego nelle ginocchia, e così resta per le due ore del film. Mi faccio piccolo-piccolo, scomodissimo, dando e ricevendo gomitate con il mio vicino per tutto il tempo dello spettacolo. Nuovo Cinema Inferno?