PALERMO – Si era “allargato” Massimiliano Milazzo. Aveva appena 25 anni e credeva di potere sfidare gente potente che merita rispetto. Ed ha pagato il più caro dei prezzi. Lo hanno torturato, massacrato di botte, mutilato e infine bruciato nelle campagne di Misilmeri. Era il giugno del 2013 quando il suo corpo fu ritrovato martoriato. Cosa nostra avrebbe infierito sulla vittima applicando la “legge del taglione”.
I carabinieri hanno arrestato i suoi presunti carnefici: Pasquale Merendino, 34 anni, e Giuseppe Correnti, di 51. E restano da individuare chissà quanti altri presunti complici in un’indagine che non si ferma e punta al cuore della nuova mafia del paese in provincia di Palermo. I pubblici ministeri – l’inchiesta è dell’aggiunto Leonardo Agueci e del sostituto Sergio Demontis – non hanno dubbi: mafioso è il contesto in cui è maturato il macabro delitto, mafioso è il “tribunale” che, condannando a morte Milazzo, ha voluto dare un segnale a tutti i riottosi, a chi non si piega al volere del più forte. L’ordinanza di custodia cautelare è firmata dal giudice per le indagini preliminari Lorenzo Matassa.
Sono stati due anni di indagini complicate. I carabinieri e i pm hanno ricostruito un puzzle di indizi: spostamenti monitorati grazie alle celle agganciate dai telefonini, immagini registrate dalla telecamere di videosorveglianza di alcune attività commerciali, dichiarazioni di testimoni per lo più reticenti. È stato necessario addirittura avvalersi della competenza di chi conosce il linguaggio dei sordomuti per decifrare gesti e mezze frasi pronunciate da bocche cucite. Merendino è fratello di Pietro, personaggio di spicco della cosca di Misilmeri, già condannato per mafia e oggi ai domiciliari. Correnti è figlio di Sebastiano, indiziato mafioso ucciso nel 1988 in un agguato nelle campagne del paese.
Il 27 giugno 2013 Milazzo usciva di casa per andare a recuperare la macchina in officina. Non vi avrebbe più fatto ritorno. La denuncia di scomparsa presentata dalla moglie diede il via alle indagini nel quartiere San Giuseppe dove i Merendino sono titolari di un panificio. Il 30 giugno una telefonata anonima annunciò la presenza del cadavere nelle campagne. Era carbonizzato. L’autopsia avrebbe rivelato particolari agghiaccianti: aveva le mandibole spezzate, le clavicole rotte, i denti spaccati e, soprattutto, le mani mozzate con una zappa.
È nel quartiere dove l’influenza dei Merendino è forte che sono stati raccolti gli input decisivi per le indagini. C’è chi ha raccontato degli screzi fra Milazzo e gli stessi Merendino, che non avrebbero gradito né il suo lavoro – faceva lo spacciatore di hashish – né i suoi metodi. Una volta, richiamato all’ordine e invitato ad allontanarsi, avrebbe risposto che altri e non lui dovevano andare via. E poi c’erano alcuni furti di cemento non autorizzati che venivano contestati allo stesso Milazzo. Insomma, dal suo arrivo nel quartiere, datato 2011, Milazzo avrebbe creato parecchi malumori. In tanti, fra i residenti, si sarebbero rivolti ai Merendino per ristabilire l’ordine. E Pasquale, oggi in cella, dimostrando un potere che andrebbe al di là del delitto, con l’aiuto di Correnti, avrebbe messo in atto il “piano” di morte. Un piano frutto di quella “giustizia privata” – così viene definita – che solo “il rappresentante attualmente più forte e più in vista della locale consorteria criminale” può avere.
È stata soprattutto l’analisi delle immagini del bar “283” a dare la svolta alle indagini. Nel locale Milazzo, seguito come un’ombra da Correnti, ha incontrato Merendino prima di allontanarsi con lui a bordo di una Fiat Uno il giorno della sua scomparsa. Verso dove? Verso il luogo buio di campagna dove, secondo l’accusa, è stato ucciso in maniera brutale. Un luogo dove si sarebbe già fatto trovare pronto Correnti e non lontano da contrada Risalajme-Giudice dove il corpo fu poi ritrovato carbonizzato e mutilato. La morte di Milazzo doveva essere da monito per tutti coloro che osavano ribellarsi. Ecco perché l’omicidio, secondo i pm e il giudice Matassa che ha firmato l’ordine di arresto, è un omicidio di mafia. Le stesse telecamere, oltre a quelle di una stazione di servizio hanno registrato anche il rientro in paese di Merendino e Currenti. Erano da soli. Così come i filmati hanno fornito un altro riscontro decisivo. Hanno immortalato, infatti, Francesco Merendino, nipote di Pietro, mentre sussurrava ad alcuni amici affacciati al balcone che a qualcuno stavano tagliando le mani.