CATANIA – Quando squilla il telefono della persona da intervistare non sai mai che cosa ti aspetterà e quei secondi piùomenolunghi prima di sentire una voce sembrano, davvero, un’eternità. “Pronto”. Ed è un pronto carico di significato quello pronunciato dall’attrice siciliana Ornella Giusto, pronta a dialogare. A raccontare e a raccontarsi. Ad ascoltare e riflettere anche nel corso della telefonata. Esordisce esprimendomi il desiderio di chiacchierare vis a vis ma la distanza, ahimè, ce lo impedisce e questo le dispiace. D’altronde se tornasse indietro – mi dice – le sarebbe piaciuto diventare psicologa perché <ama le persone e i microcosmi di ognuna di loro>.
“Mi nutro di rapporti umani che amo costruire con onestà e sincerità – prosegue. Forse non sembra ma sono riservata ed anche un po’ timida”– esclama sorridente. E’di buon umore, mi pare chiaro.
Sei innamorata? Inizia a ridere, e ride, ride come fa ogni persona innamorata.
“Che bella domanda, iniziamo davvero bene. Si, sono innamorata della vita. L’amore è qualcosa di straordinariamente bello, se vero. Amo i miei genitori e so che loro non mi tradiranno mai qualunque cosa racconti. Amo le mie amiche, con cui non mi risparmio: so dare aiuto e non soffro di invidie. Anche nel lavoro, sono una <buona> non entro in competizione e mi tengo fuori da pettegolezzi ed ipocrisia. Di un uomo amo l’onestà e nel rapporto di coppia sono molto generosa e collaborativa perché non accetto di dover gravare su qualcuno. Sono un’attrice, ma non nella mia vita e so discernere bene i due ambiti”. Poi aggiunge: “Confesso che ho incontrato più attori nella vita reale che sul palco. E quando ciò accade, ti imbatti in bugie, finzione e, ti assicuro, è massacrante”.
Già. Condivido. Parliamo di teatro, il suo vero amore. Si presenta generosa e complice: “Ciò che dà grande soddisfazione a teatro – confida – è riuscire a donare e donarsi completamente per entrare in sintonia con il pubblico che ogni sera assiste e giudica. La tensione, l’emozione sono sempre altissime: nutro un profondo senso di responsabilità nei confronti del pubblico – maestro”.
A proposito di pubblico – le chiedo – preferisci i giovani o gli adulti?
“Sono molto diversi ma accomunati da un aspetto comune. Ogni volta che metto in scena uno spettacolo avverto immediatamente il silenzio e qualsiasi bisbiglio viene meno. Da lì scatta un’energia, un calore che genera un legame col pubblico che mi permette di percepire se è attento o meno”.
Il pubblico decreta il successo di uno spettacolo e di conseguenza giudica chi ha calcato le scene. Qual è l’effetto di un applauso?
“Negli anni affini l’orecchio e arrivi a cogliere le caratteristiche dell’applauso, animato da forze diverse. Oggi mi accorgo se l’applauso è vero o no. Se lo spettacolo è piaciuto o meno. A volte assisti ad un applauso non fortissimo ma intenso, carico di significato come se dietro quell’applauso vi fossero punti interrogativi, quesiti che porteranno a casa per riflettere. Altre volte, invece, senti un applauso rumoroso ma percepisci che si fa perché si deve”.
Ornella Giusto ritorna a Catania per dare voce a Maria, la protagonista di <Storia di una capinera> uno degli appuntamenti verghiani, sotto forma di lettura sceneggiata, inseriti in un percorso interdisciplinare che vede coinvolti letterati, storici, linguisti, filologi, studiosi di teatro e storici della musica per superare gli schematismi della lettura univocamente critica o stilistica. Maria vive una situazione complessa, trascinata in un viaggio vertiginoso e inarrestabile verso la follia e la morte.
Come fai a cimentarti in ruoli così tormentati?
“Mi dicevano i miei maestri, frequentando la scuola, che avessi una predisposizione al dramma, inteso in relazione al contenuto tragico, conflittuale della recitazione. Credo che l’essere siciliana, vulcanica, passionale abbiano fatto poi la differenza. Dentro di me avverto un fuoco, una forza che riconosco in mia madre, un modello di riferimento. La sensibilità ed il vissuto di ognuno di noi incidono moltissimo. Nello studio di un personaggio è fondamentale la leva psicologica: puoi arrivare a commuoverti spontaneamente se sei dentro quella parte. Io, per esempio, ho pianto a dirotto leggendo la trama. E in fondo, mi sento un po’ capinera, quanto al travaglio interiore che vivo. Se penso all’amore, fa soffrire, sempre. E non solo se ha provocato dolore ma ogni qualvolta si presenta alla tua porta, perché quando si ama dentro di noi si scombussola tutto”.
In che modo ti sei approcciata a Maria?
“Mi sono immedesimata nell’essere non completamente libera ma, piuttosto, relegata in una struttura chiusa, quale il convento. Ho lavorato molto sulla voce e sulle pause perché per trasferire al meglio lo stato d’animo di grande sofferenza e sgomento l’uso della parola non basta. Dimenticando di essere Ornella mi sono incarnata in Maria per donarmi completamente al pubblico”.
Dal teatro al cinema, il passo è stato breve e tu hai avuto la possibilità/capacità di lavorare con grandi maestri, da Giuseppe Tornatore a Paolo Virzì a Emidio Greco. Ma il teatro è molto diverso dal cinema.
“Certamente. Manca il rapporto immediato con il pubblico o quel gioco di silenzi iniziali che danno il “la” alla rappresentazione. Io nasco attrice di teatro e oggi lo affermo con soddisfazione. In passato quasi mi vergognavo perché l’attore era percepito più come un modo di essere che come un mestiere. La scuola di teatro mi ha insegnato un metodo ma la differenza la fa ognuno di noi con lo studio, l’attitudine personale, la sensibilità. A volte la storia narrata non è particolarmente interessante ma ci sono attori talmente bravi da fare la differenza”.
Quando hai capito che fare l’attrice sarebbe stata la tua professione?
“In effetti non c’è stato un momento preciso. Durante il percorso di studi di recitazione ho iniziato ad appassionarmi rendendomi conto che attraverso lo studio dei personaggi potevo scoprire le parti più oscure di me stessa. Insomma, il teatro-terapia. E’un po’ come stare accanto al grande amore e se non ce l’hai ti manca. Ogni spettacolo mi rafforza sempre più e sento crescere la mia autostima. Il teatro mi fa stare bene, mi sento coccolata, confortata. Ricordo ancora – conclude – le parole di Michele Placido, sostenitore dell’idea del teatro come strumento per capirsi e per capire”.
Il teatro come terapia in grado di provocare una catarsi, una purificazione. Per ripartire, ri-generata. Che momento vive il teatro?
“Si sente dire che c’è crisi, ovunque. Ed è vero ma per quanto mi riguarda ciò non mi demoralizza. Anzi. E’proprio in questi momenti che occorre tirare fuori il carattere. Vedo colleghi che si incupiscono. Io, invece, aggredisco il momento; non amo <l’attesa> e non aspetto che la proposta bussi alla mia porta. Invento, creo, mi sperimento. Lo spettacolo <La bella gitana> ne è un esempio. Quando scelsi questo mestiere ero consapevole delle difficoltà e dell’altalenanza tra i momenti di magra e quelli di copiosa attività. Ed è durante i primi che posso lavorare su me stessa, fortificando e metabolizzando tutto ciò che ho fatto nella fase di lavoro serrato”.
Qual è il tuo rapporto con la poesia?
“E’fortissimo. Ho scoperto la passione per la poesia negli anni di lontananza da mia madre. “Donna, donna mia” fu la prima poesia. Da lì poi scrissi soprattutto nei momenti di tristezza, di malinconia”.
Soffri la solitudine?
“La peggiore solitudine è l’idea di rimanere da soli con se stessi. A me questo non spaventa. <Io con me> siamo in due e non sola. A volte l’esterno confonde, annebbia; in quei momenti mi rinchiudo con me stessa e non in me stessa per ritrovare l’energia positiva che è dentro di me. E quando torno in mezzo agli altri sono un vulcano … in eruzione”.
Cosa porti della Sicilia dentro il cuore?
“E’una domanda bellissima. E molto forte. Da quando frequento la mia terra, circa tre anni, sto riscoprendo ed apprezzando quello che avevo conosciuto nella mia fanciullezza. Allora trascorrevo in Sicilia solo il periodo di Natale e le vacanze estive. Oggi ho l’opportunità di viverla e godermela e dare sfogo alla mia creatività”.
Le chiedo di chiudere gli occhi, pensando alla nostra terra, e di dirmi che odore sente.
Allora inizia a respirare a pieni polmoni e dopo qualche istante di silenzio sussurra: “Le arance, i limoni. Quando spacco un agrume, sento il profumo di Sicilia. Durante le passeggiate nelle vie catanesi, avverto l’odore dell’iris, del pane caldo. In Sicilia c’è sempre ‘sto benedetto pane caldo, ad ogni ora – esclama. Sono odori forti, belli che rimangono impressi nella mente. Ed ogni volta che sono qui è come ricevessi un abbraccio virtuale, avvolgente, protettivo. Per quanto bella sia Roma, la mia città a tutti gli effetti, al sud c’è qualcosa di misteriosamente diverso. Avverto la <morbosità> dei parenti, della famiglia, unita compatta legata alle tradizioni, al Natale in particolar modo. Il senso dell’amicizia. Quando un siciliano ti abbraccia, ti stringe la mano, lo senti. Siamo diavoli, infernali, agitati, in continuo movimento, sempre alla ricerca. C’è una frenesia nell’aria”.
E i siciliani, è vero, siamo proprio così. Aggiungerei, apprensivi, “sperti”, “delinquenti”, nel senso buono, s’intende. Dal ragionamento velocissimo. <Ti fanno le scarpe> è la locuzione giusta e guarda caso nasce nel meridione nel ‘600. Appunto. E’un guizzo e manco te ne accorgi. Ti basta guardarlo negli occhi, per capire “che siciliano è”.
E ricordo chiama ricordo: mi racconta gli anni degli studi presso l’istituto Sacro cuore a Catania, il Koala Maxi, l’Arcadia, la Fazenda garden, tutte creazioni del padre imprenditore lungimirante che sulle ceneri di una masseria creò discoteche negli anni d’oro di Ray Charles, Berry White, Richard Sanderson, Anna Oxa, Angelo Branduardi, Gino Paoli, Ornella Vanoni. Poi la separazione dei genitori e la necessità di ricominciare.
Da Catania a Roma per raggiungere la madre. “Quando cambia la loro vita cambia la tua” – dice con la serenità di chi ha superato quel momento grazie anche all’intelligenza dei suoi genitori ed alla presenza della nonna. Dalla nostra chiacchierata si fa presto a capire che in Ornella convivono due anime: quella sognatrice ed entusiasta della vita e al tempo stesso quella razionalmente ancorata e con i piedi ben piantati a terra.
E’ un libro da sfogliare: la storia, le esperienze, gli aneddoti. “Potrei dirti molte cose perché ognuno di noi è un romanzo” – afferma. A che pagina siamo? – le chiedo. “Non lo so… ma mi piace parlare. Si è capito?