Palermo, "non fanno parte della mafia nigeriana": assolti i 13 imputati - Live Sicilia

Palermo, “non fanno parte della mafia nigeriana”: assolti i 13 imputati

Le indagini partirono dopo una spedizione punitiva nei confronti di un uomo
IL PROCESSO
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PALERMO – “Non facevano parte della mafia nigeriana”. Ecco perché lo scorso maggio sono stati assolti i 13 imputati nigeriani a cui era stato contestato il reato di associazione mafiosa. Il presidente della quarta sezione penale del tribunale di Palermo, Bruno Fascina, ed i giudici, Daniela Vascellaro e Giangaspare Camerini, lo hanno messo nero su bianco nella motivazione della sentenza.

Gli imputati (Ehigiator Osabuohien, Omo Charles, Aleh Victor, Atuke Evans, Austin Solomon V, Eboigbe Paul, Brown Richard, Ostin Eric, Emma Ekele, Usobor Omoniyi, Esene Innocence, Patrick Bertram e Sandra Ekinadoese) dovevano fare i conti con l’accusa di essere mafiosi, ma per questo reato sono stati assolti. Per Aleh Victor e Austin Solomon la condanna è scattata per un altro reato, cioè lo spaccio di droga, e ad otto mesi per Ostin Eric, accusati di rapina con violenza e minacce.

Erano difesi dagli avvocati Cinzia Pecoraro, Giuseppe La Barbera, Angelo Raneri, Giuseppina Scrudato, Mariangela Spadafora, Giovanni D’Acquisto, Giuseppe Orlando, Antonio Pecoraro, Luigi Sambito, Daniel Russo, Salvatore Mirabile.

Il via alle indagini

Le indagini avevano preso il via dopo una spedizione punitiva contro un nigeriano, picchiato da alcuni connazionali in via delle Case Nuove, a Ballarò. Violenze, sfruttamento della prostituzione e pratiche tribali feroci sarebbero state messe a segno dalla confraternita chiamata Eiye, un gruppo della mafia nigeriana contrapposto alle altre consorterie battezzate Black Axe, Vikings, Maphite e Arubaga.

Secondo il racconto di uno degli amici del ferito l’aggressione era stata organizzata proprio da Eiye. Chi ha aiutato le forze dell’ordine nelle indagini ha raccontato di una vera e propria organizzazione mafiosa, con regole interne, dove vigeva omertà, il rispetto e l’obbedienza alle direttive dei vertici, punizioni per chi sgarrava e il versamento, obbligatorio e periodico, di somme di denaro per sostenere le esigenze della casa madre nigeriana.

Le motivazioni

Ricostruzione che, però, è stata smontata dai giudici. “Non c’è alcun dubbio – si legge nella sentenza di primo grado – sull’esistenza di un’associazione radicata territorialmente, costituita tra soggetti che hanno un’identità culturale e tribale stabilmente organizzata in un sistema gerarchico, con suddivisioni di ruoli, segni di riconoscimento, riti, attività e relazioni“. Ma, la complessa e vasta istruttoria dibattimentale “non ha definito con i caratteri propri della fattispecie di tipo mafioso, né quelli di un’associazione per delinquere semplice. Non solo ne è mancata la prova, ma l’intero complesso rappresentativo offerto a supporto della tesi accusatoria ha dimostrato la sua infondatezza“. Insomma “un castello di carta“ – come lo hanno definito i giudici – senza alcun riscontro anche perché i cosiddetti pentiti erano stati valutati inattendibili dalla Corte di Assise di primo e secondo grado con le sentenze confermate dalla Cassazione.


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