E alla fine, tanto si sparò che piovve sangue e ci scappò il morto. A Palermo si spara, a Palermo si stupra, a Palermo si spaccano facce e locali, a Palermo si respira l’aria fetida della violenza. No, non è una nuova serie tv e non è il ricordo di un tempo lontano che – paradosso dei paradossi – rischiamo addirittura di rimpiangere; del resto, siamo o non siamo il popolo del “si stava meglio quando si stava peggio”?
Prima c’era la mafia, una montagna di merda che impuzzava tutto e tutti, ma da cui comunque la gente “normale” riusciva a tenersi a distanza di sicurezza, se lo voleva (al netto degli effetti devastanti che il potere mafioso aveva – e forse ancora ha – sulla collettività e sullo sviluppo di un intero territorio).
Oggi no. Oggi percepiamo un pericolo differente e paradossalmente ci fa quasi più paura. Oggi la gente normale – i nostri figli che escono la sera – non possono ritenersi al sicuro. Perché una “sciarra” in un bar o una guerriglia tra bande in pieno centro o una pistolettata in discoteca sono i classici buchi dove il Diavolo può infilarci la coda e spedirci all’inferno.
C’è un’emergenza! Ed è tutta nostra, ci sfiora, ci tocca, ci riguarda. Un’emergenza che ha radici nei quartieri che non conoscono evoluzione; non sanno cos’è. Mi spiace dirlo, ma è così e dobbiamo dircelo. Non è più tempo di politicamente corretto, è tempo di guardare in faccia la realtà. La realtà triste dei rioni popolari. Allo Zen sparano contro un’abitazione. A Borgo Nuovo due ragazzini sparano contro le auto con una pistola ad aria compressa. Al Cep si odono colpi per strada. In Corso dei Mille tre ragazzini fanno esplodere un petardo dentro il tram mandando l’autista all’ospedale.
Il cowboy di via La Lumia è un pregiudicato dello Sperone. Una nota rosticceria notturna quasi non viene trasformata in un saloon (ne sono stato diretto testimone) e lo slang dei bandoleros non era certo quello della vicina Via della Libertà. I galli azzuffantisi a Sferracavallo (quelli che si sono aggaddati, va), pare provengano dalla ridente Marinella. Per non parlare del famigerato stupro di qualche mese addietro, perpetrato in zona Foro Italico da un branco di via Montalbo.
Sì, esiste un’emergenza sociale e culturale nelle borgate palermitane. E no, non è classismo. È sdegno. È rabbia. Ed è paura. Lo sdegno di assistere al degrado irredimibile di una città che a “diventare bellissima” proprio non ce la fa; no, non ce la possiamo fare! La rabbia dell’impotenza, un senso di frustrazione che discende dalla consapevolezza, strisciante, forse un po’ superficiale eppure dannatamente realistica, che se l’ignoranza è il motore, l’impunità è la benzina. E poi c’è la paura. La fottutissima paura che, pur non entrandoci niente, i nostri figli – che non sono i rampolli “finulicchi” di qualche casata, ma semplici ragazzi e ragazze perbene – prima o poi possano imbattersi in qualcuna di queste bestie e venirne divorati.
Sì, abbiamo paura. Una paura che può solo comprendere chi è genitore e saluta suo figlio sulla porta di casa, consegnandogli quell’indefinito, quanto accorato, “stai attento”, dentro cui si mescolano preghiere, consigli, prediche e timori. Poi c’è chi, come il sottoscritto, non ce la fa a limitarsi a quella frase e comincia con la solita declinazione delle prediche, sempre le stesse: “Non correre”, “Non bere”, “Con chi esci?”, “Non fare tardi”… Ma quale raccomandazione possiamo fare ai nostri figli rispetto a questi banditelli di borgata, che sciamano per le strade della city e ne combinano di tutti i colori? Nessuna! Potremmo solo chiuderli in una teca e tenerceli per soprammobile, non potendo purtroppo sperare che siano questi individui ad essere chiusi, melius, rinchiusi; e non certo in una teca, no.
È questo il tema: la sicurezza. Basta, siamo stufi! Inutile buttarla nella solita caciara culturale; inutile sfoderare le solite ricette d’inclusione o emancipazione o educazione e menate simili; inutile invocare la presenza delle istituzioni, gli esempi di legalità, il lavoro nelle scuole e cose del genere. Non c’è speranza. Non c’è ne coviddi (direttore, non corregga per favore) e non c’è speranza. Qui ci vuole il bastone, visto che le carote se le son mangiate i “succi” (grossi quanto conigli) che escono dalle vie degradate delle borgate popolari, infestando la città di violenza.
La violenza nei gesti, la violenza nelle parole, la violenza nel pensiero, la violenza in ogni senso.
La violenza che è nelle menti obnubilate dall’ignoranza, negli occhi che scrutano solo orizzonti insulsi, perché non se ne scorgono altri. Che è nelle vite sguazzanti nel torbido di giorni tutti uguali, scanditi dall’inedia e dalla noia. La violenza che è nella povertà. La povertà di case scrostate; di strade piene di buche; di muri imbrattati che gridano squallore; di figli sui marciapiedi bagnati di pioggia e lacrime trattenute; di palazzi ingrigiti, tenuti insieme da fili infiniti, su cui scorrono vite grame e da cui pendono panni lerci; di salari minimi e consumismo sfrenato (l’ai fon quinnici m’eccattari!), di disoccupati che cercano qualcosa e di quelli che non cercano altro che guai.
Sono queste le nostre periferie. Borgate buie, di borgatari che vengon su come le erbacce che invadono i marciapiedi; dove “sbirro” è un epiteto e non un amico; dove la testa è un’arma contundente e non uno strumento per pensare; dove la scuola è per molti una gran camurria (e non parlo di chi deve andarci ma di chi deve mandarceli); dove l’abusivismo è la frontiera architettonica del menefreghismo; dove il dialetto non è quel nostro meraviglioso slang di musica e colori, bensì un codice di durezza e spavalderia; dove un muretto è lo scranno della noia, una villetta l’ennesima occasione perduta, uno spiazzo l’unico campetto senza porte e senza linee, un tombino una bomba ad orologeria col meteo per timer; dove un lampione spento è il palo a cui incatenare un motorino, non causa d’una strada insicura perché scura; dove la rassegnazione ha il sopravvento sopra ogni illusione e la rabbia si concentra sui “cornuti dei politici”, comunque contenti del bisogno e dei voti che alla fine ricevono sempre.
È da qui, da questo quarto mondo che insiste a pochi passi da noi, a qualche traversa più in là, a qualche fermata d’autobus da casa nostra, che proviene la feccia immonda che scippa, ruba, pesta, inveisce e che spara. Con tutto il rispetto possibile e immaginabile per la gente perbene che vive in quelle stesse borgate, dico che non ne possiamo più. Basta. Siamo stanchi! Vogliamo la disinfestazione! E ora che al governo abbiamo una ventata politica che ha sempre fatto del tema della sicurezza un fiero stendardo, anche ideologico, la pretendiamo. Non ce ne frega un fico secco dei panettoni della Ferragni o delle geometrie parlamentari o dei summit o delle feste di partito.
Vogliamo che le strade, le nostre strade, quelle battute dai nostri figli, vengano presidiate con più forza e aderenza dai nostri cari, amatissimi sbirri. Si parla tanto, in questo ultimo periodo, dei miliardi che piovono dall’Europa e ci si spreca nei soliti incomprensibili acronimi, che evocano sviluppo e resilienza. Tutto giusto, tutto buono, tutto vero. Ma oggi qui, a Palermo (e non solo) è una sola la resilienza che desideriamo: quella sociale. Vogliamo una città dove le uniche cose che si sparano siano le cavolate al bar piuttosto che allo stadio, piuttosto che nelle chat, piuttosto che nei comizi. Quegli spari, sì, siamo disposti a sopportarli; hanno persino un certo non so che di simpatico. Vogliamo una città più sicura. Perciò, senza voler scadere nel populismo spicciolo, la politica investa sulle forze dell’ordine, ne rafforzi i ranghi, le distribuisca diversamente e li paghi meglio. Anche questa è resilienza. È questa la nostra resilienza.