PALERMO – “È di assoluta auto evidenza che le condotte abbiano avuto un sicuro rilievo strategico per l’attività dell’associazione mafiosa e che non hanno solo consentito ad uno dei massimi esponenti di sottrarsi alla ricerca decennale ma, prima ancora, di continuare a svolgere il proprio ruolo di capo”.
Così scrive il giudice per l’udienza preliminare Paolo Magro nella motivazione della sentenza con cui ha condannato a 11 anni e 4 mesi, per associazione mafiosa, Laura Bonafede, la maestra di Campobello di Mazara, figlia del boss del paese, che per anni è stata sentimentalmente legata a Matteo Messina Denaro.
Un lungo rapporto il loro, “che trova origine già nel 1996 allorquando la stessa chiedeva di essere accompagnata nel luogo in cui Messina Denaro si trovava all’inizio della sua trentennale latitanza”. Non si sarebbero più lasciati, nonostante la donna si fosse sposata con un ergastolano condannato per avere commesso omicidi su ordine del padrino latitante.
Matteo Messina Denaro il 3 aprile 2015, nei suo diari, scriveva a “blu” (uno dei nomi in codice di Bonafede): “Eravamo una famiglia, davvero una famiglia”. La donna ripensava con nostalgia ai momenti di convivenza: “Mi manca tutto anche guardare un film insieme in modo rilassato”. Si incontravano “in un tugurio” che per lui era “una reggia”. In un Dvd trovato nel covo a Campobello di Mazara c’era l’impronta digitale della donna.
Ci fu un momento in cui la presenza delle forze dell’ordine li aveva obbligati ad allontanarsi. Si ricongiunsero nell’ultimo periodo di vita del boss. Ma il rapporto epistolare non si è interrotto. Usavano, scrive il giudice, “un codice linguistico condiviso”, nei “pizzini” celavano identità di cui Bonafede era perfettamente a conoscenza.
La maestra conosce gli intimi segreti del latitante, “faceva riferimento a questioni di natura mafiosa” come quando scriveva “una volta mi dicesti ma se persone non ce ne sono più”. Definiva gli investigatori “nemici” ed è stata “destinataria delle disposizioni da attuare ‘dopo’ (da intendere dopo la morte del capomafia ndr) come quella di recarsi dalla sorella il boss Rosalia per prendere ‘la chiave'”. Della cappella di famiglia al cimitero di Castelvetrano dove Messina Denaro è sepolto o di qualcos’altro?
“Non è, infatti, di certo minimamente credibile che il latitante notoriamente più pericoloso e più ricercato d’Italia, abbia condiviso importantissimi segreti per Cosa nostra, ovvero non solo la sua collocazione ma anche i suoi spostamenti – scrive il Gup -, le sue precarie condizioni di salute e le questioni di natura mafiosa sino a raccogliere il suo testamento ricevendo le direttive sul dopo con una persona non affiliata, solo perché ad essa legata affettivamente”.
Per il giudice è evidente come le condotte della donna non fossero “circoscritte e rivolte al singolo, ma – semmai – abbiano dato un contributo altamente qualificato, essenziale all’associazione mafiosa Cosa nostra in sé, in quanto servente un pericolosissimo capo e latitante”.
“Il contributo di Bonafede, infatti, non può in alcun modo rientrare (come ha richiesto la difesa) nel novero del favoreggiamento personale sia pure con l’aggravante mafiosa – scrive -. Trascendono il mero rapporto personale con Messina Denaro le condotte della maestra sono, dunque, più coerentemente riconducibili ad un apporto di carattere sistematico sorretto dalla piena consapevolezza del ruolo apicale rivestito dal boss nell’organizzazione mafiosa e della universalmente nota condizione di latitanza dello stesso, inevitabilmente funzionale all’attività illecita collettiva propria dell’associazione mafiosa”.
Per tutto questo Laura Bonafede è stata una donna di mafia, seppure abbia cercato di sostenere il contrario nel corso delle dichiarazioni spontanee rese in aula. Sotto processo per favoreggiamento – la sentenza è attesa per marzo – c’è ora la figlia della Bonafede, Martina Gentile che il capomafia ha cresciuto come una figlia.