PALERMO – È la sera del 7 ottobre 1986, una manciata di minuti alle 21. Una moto di grossa cilindrata, probabilmente una Kawasaki, arriva all’altezza del civico 24 di via Giovanni Fattori, rione San Lorenzo. Indossa il casco integrale.
L’omicidio di Claudio Domino
Estrae una pistola semiautomatica calibro 7.65 ed esplode un solo colpo da cinque-dieci metri di distanza. Il proiettile raggiunge al viso Claudio Domino, che si trova in compagnia di un amico. Non gli dà scampo, muore a 11 anni.
Un omicidio allo stato destinato a restare senza colpevoli. La Procura della Repubblica, che ha riaperto il caso nel 2021, nei giorni scorsi ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta a carico di ignoti. L’ultima parola spetta al giudice per le indagini preliminari.

Il procuratore aggiunto Marzia Sabella e il sostituto Giovanni Antoci hanno scandagliato la vicenda, partendo dalla richiesta di nuove indagini avanzata dai genitori del piccolo Claudio, il padre Antonino e la madre Graziella Accetta. È diventata una palude dove compaiono fantasmi e agenti dei sevizi segreti deviati, dove la storia del bambino si intreccia con quella di altre tre omicidi.
Spuntano collaboratori di giustizia, quelli dei ricordi fuori tempo massimo, fumosi e contraddittori. Dovrebbero aiutare gli investigatori ed invece finiscono per intorbidire le acque come è accaduto in altri misteri italiani. I pm hanno comunque ricostruito pezzi di verità finora inediti. Potrebbero sempre servire, un giorno, per arrivare ad una svolta investigativa che al momento non c’è.
“Ehi tu, vieni qui”
“Ehi tu, vieni qui”, dice il killer a Claudio prima di fare fuoco. L’amichetto corre ad avvisare i parenti che gestiscono una cartolibreria lì vicino. È frastornato, nulla sa dire dell’assassino se non dettagli come il casco integrale e la moto che non serviranno a individuarlo. Il killer era già sul posto, accese la motocicletta quando vide Claudio.
Non ci sono altri testimoni, almeno non si fanno avanti. Il 26 ottobre 1986 sul cellulare del padre di Claudio, Antonio, arriva una telefonata. Risponde la sorella. Un uomo, mai identificato, dice di conoscere sia il responsabile dell’omicidio – una persona del quartiere palermitano San Lorenzo – sia il motivo legato al padre. La cui vita viene passata ai raggi X per arrivare alla conferma, contro il chiacchiericcio, che non gravita negli ambienti della criminalità, organizzata e non.
Le pulizie al bunker del maxiprocesso
La prima pista si concentra sull’impresa di pulizia di Domino che ha presentato un’offerta per aggiudicarsi la commessa nell’aula bunker dell’Ucciardone dove si sta celebrando il maxiprocesso alla mafia. Ha proposto un ribasso del 45%, di gran lunga superiore a quelli delle imprese concorrenti che si attestano sul 25%. Dopo l’esclusione dalla gara dell’impresa “La Splendente” di Domino la ditta che si aggiudica l’appalto lo fa con un ribasso del 46, 05%. Nulla di anomalo, dunque.
L’ombra dei Graffagnino
Le indagini allora sono affidate alla squadra mobile. I poliziotti ipotizzano che “casualmente” il piccolo Claudio qualche giorno prima del delitto “ha sollevato la saracinesca di un locale di proprietà di Salvatore Graffagnino”. L’uomo gestisce un bar, che i poliziotti perquisiscono. Dentro un cassetto del bancone chiuso a chiave trovano cinquanta cartucce calibro 7.65 e ventisei cartucce calibro 38 special marca Fiocchi. Che però risultano non compatibili con il bossolo dell’omicidio Domino.
I poliziotti controllano anche la polleria che Graffagnino gestisce in piazza San Lorenzo e un villino a Villagrazia di Carini. I cani fiutano tracce di droga. Alcuni familiari notano delle anomalie. Graffagnino non può non avere sentito il colpo di pistola perché si trovava davanti al bar quando avvenne il delitto. Lo stesso bar è l’unico rimasto aperto il giorno del funerale di Claudio. Niente lutto, dunque. Nessuna solidarietà.
Qualcuno ricorda pure che l’uomo è andato all’ospedale dove si sono radunati i parenti Claudio. “Doveva andare così… so che tu non hai fatto niente”, avrebbe detto al padre della vittima. Una quindicina di giorni dopo una voce anonima chiama Antonio Domino per dirgli che qualcuno voleva ammazzarlo.
Uccisi padre, figlio e nipote
Il 5 dicembre 1986 Salvatore Graffagnino viene assassinato. Stessa sorte toccherà, il 21 novembre 1991, al figlio Giuseppe e al nipote Gabriele. Una sentenza ormai irrevocabile ha riconosciuto colpevoli del primo delitto i boss di San Lorenzo Giovan Battista Ferrante e Salvatore Biondino. Nella motivazione c’è scritto che Salvatore Graffagnino fu ucciso perché ritenuto responsabile dell’uccisione del piccolo Claudio: “…un dato appariva inconfutabile alla luce delle concordi risultanze dibattimentali: lo scomparso (Graffagnino Salvatore) era ritenuto non solo da Antonio Domino e dagli inquirenti, ma anche da Cosa Nostra il responsabile dell’uccisione di Claudio Domino”, scrissero i giudici.
Per l’omicidio degli altri due Graffagnino sono stati condannati Salvatore Biondino, Salvatore Biondo, Giovanni Cusimano, Simone Scalici, Giovan Battista Ferrante e Francesco Onorato. Anche in quel processo l’omicidio Domino è stato considerato una delle possibili causali. Con ragionevole certezza si parlò della “necessità dei Graffagnino di mettere definitivamente a tacere il minore, in quanto possibile testimone scomodo che avrebbe potuto mettere a repentaglio i traffici di droga dagli stessi gestiti e conseguentemente la loro libertà personale”.
Luigi Ilardo e “faccia da mostro”
Nel corso della nuova indagine è stata acquisita una vecchia registrazione delle dichiarazioni rese da Giovanni Ilardo al tenente colonnello Michele Riccio. Ilardo era un capomafia della provincia di Caltanissetta che per un anno e mezzo fece il confidente, poi il 10 maggio 1996 l’ammazzarono sotto casa, a Catania. Stava per diventare ufficialmente un collaboratore di giustizia, aveva già incontrato magistrati e ufficiali del Ros a Roma.
Ilardo disse di avere saputo che l’omicidio Domino era stato commesso dai servizi segreti e poi addebitato a Cosa Nostra. In particolare qualcuno aveva visto che a premere il grilletto era stato uno che “aveva la faccia di un mostro e … girava imperterrito in Palermo”. Era un chiaro riferimento a Giovanni Aiello, poliziotto dei misteri, oggi deceduto e tirato dentro nelle più torbide storie siciliane.
Ilardo è sempre stato ritenuto credibile, bisogna capire se lo fosse anche chi aveva messo in circolazione la voce su Aiello. La Procura ha forti dubbi. Ad esempio nessuno ha visto in faccio il killer che indossava il casco integrale.
I due pentiti
L’aggiunto Antoci ha acquisto la testimonianza resa nel 2016 da Antonino Lo Giudice, detto il nano, al processo “Borsellino quater” di Caltanissetta. Lo Giudice, mafioso calabrese pentito, raccontò che nel carcere dell’Asinara il boss palermitano Pietro Scotto “dava la colpa a un certo Giovanni Aiello. La colpa è tutta sua da quando è entrato nella sua… nella nostra famiglia, che ha preso amicizia con mio fratello, ci ha rovinato a tutti”.
Scotto avrebbe aggiunto che “è stato lui che ha premuto il pulsante, è stato lui che ha fatto scoppiare la bomba a casa di Borsellino”. In seguito, così raccontò Lo Giudice, avrebbe conosciuto lo stesso Aiello che gli confidò di avere ucciso Domino. Solo che Lo Giudice ha detto di non ricordare dove e come avvenne il delitto.
Nello stesso processo ha deposto anche Consolato Villani, ‘ndranghetista pentito, il quale ha riferito che Lo Giudice gli disse che “faccia da mostro” aveva ucciso una donna e un bambino. In realtà in un precedente interrogatorio aveva parlato dell’omicidio di una donna e di un poliziotto, e poi di un bambino. Anche le sue dichiarazioni vengono bollate come piene di contraddizioni.
Nessuna verità
Il risultato è che la Procura ritiene di non avere raggiunto una verità sull’omicidio del piccolo Claudio Domino nonostante il possibile legame con la vicenda Graffagnino, messo nero su bianco nelle sentenze. Restano aperte le domande di sempre: chi e perché ha ucciso il bambino di 11 anni? Ora si aggiungono altri interrogativi: perché i servizi segreti avrebbero dovuto eliminare un bambino? Aveva visto qualcosa che non doveva vedere o fu un atto terroristico di Cosa Nostra?
Qualcuno, all’oscuro degli altri associati, lanciò un messaggio, per mettere in chiaro che nessuno poteva anche solo immaginare di lucrare sul maxiprocesso, neppure per un appalto delle pulizie? Cosa Nostra dimostrava di essere pronta a tutto, anche ad uccidere un bambino.
Il proclama di Bontade
Il mafioso Giovanni Bontade, da dietro le sbarre, fece un proclama durante il maxiprocesso, rendendo le distanze dall’assassinio: “Siamo uomini, abbiamo figli, comprendiamo il dolore della famiglia Domino. Rifiutiamo l’ipotesi che un atto di simile barbarie ci possa sfiorare”. La frase di Bontade finì per confermare l’esistenza dell’associazione mafiosa unitaria.
La parola passa al gip per la decisione finale. La famiglia Domino assistita dall’avvocato Antonio Ingroia, che prima di fare l’avvocato da pm a Palermo seguiva le indagini per mafia, potrebbe opporsi alla richiesta di archiviazione.

