La morte di Peppino Tedesco (nella foto social: un abbraccio immenso), che non bisogna nemmeno spiegare chi è, ci riporta a quel sogno di polvere, pallone e immaginazione condensato in un solo nome: Malvagno. Quel campo a cui arrivavi dopo tante incertezze, perché non sempre ricordavi la strada, tra gli alberi della Favorita. Era come nelle fiabe. Lo trovavi – il Malvagno – solo se eri degno del suo prestigio, della sua storia e della sua umile ma immensa gloria. E quando entravi, con il pallone a rombi sotto il braccio, ti pareva di vedere cinquantamila sugli spalti, Luigi Necco e Tonino Carino ai bordi, pregustando il sorriso pomeridiano di Paolo Valenti, a ‘Novantesimo’.
I campi di calcetto ancora non c’erano. C’erano i campetti sgarrupati sotto casa. Convertiti in mini-stadio dalla voglia di gesta eroiche. A piazza Europa, per esempio, vigeva la legge dello ‘Scipione’. Uno slargo in cemento, protetto da un esile cancelletto. Il nome altisonante era stato dato, a sua insaputa, da un negozio dei paraggi. Oggi pomeriggio che facciamo? Andiamo allo Scipione. Ed era subito Coppa Campioni.
Oltre lo sfogo sotto casa c’era, appunto, il Malvagno. Che necessitava di comitive motorizzate, in quanto irraggiungibile a piedi. Era l’upgrade massimo e tu sapevi di essere lì perché qualcuno ti aveva promosso dal rione alla sfida cittadina. Il calcio amatoriale si faceva con gli indumenti che passava il convento. Molte magliette stinte, memori di epiche battaglie. Portieri più da hockey, riguardo alle imbottiture. Scivolate sconsigliate, ma c’erano. Andavamo il sabato pomeriggio, specialmente se, al mattino, avevamo dribblato l’interrogazione di matematica.
Era un tempo che Montanelli – come fece con il ciclismo – avrebbe definito ‘saragatiano’ per bonomia e sentimenti. La domenica ci si riuniva intorno a una radiolina. I gol venivano immaginati, sul muro della stanza da pranzo, prima che Paolo Valenti giungesse a spezzare il digiuno. Era un calcio migliore. E, forse, anche la vita lo era. (rp)