Vivere a Palermo vuol dire rassegnarsi a subire i colpi di una inemendabile violenza. Palermo è una città brutta, sporca e cattiva. Chi può scappa verso altri lidi un po’ meno subumani, gli altri si organizzano dietro i reticolati di fragili trincee. Palermo è brutta, nonostante le retoriche incrociate che ne reclamano la salvezza, quando non sono talmente spudorate da darla come già acquisita. Palermo è sporca di umori vigliacchi, di cassonetti stracolmi, di interessi loschi, di poteri cannibali. Palermo è cattiva, attraversata da feroci sgozzatori della gentilezza e della coesistenza. Sul punto le cronache non sono smentibili, stando appena ai casi recenti. L’anziano garagista picchiato con un calcio di pistola per quindici euro. Il passante malmenato per il borsello. Gli anziani rapinati in casa, gli scippi, il racket minaccioso del parcheggio selvaggio.
Tentiamo con sgomento di ripararci dietro fortezze di fortuna. Chiudiamo a chiave la porta. Giriamo intorno lo sguardo con circospezione, se condividiamo il rischio di camminare per strada. Telefoniamo con apprensione alle nostre mamme, dispensando i consigli che la nonna intimava a Cappuccetto Rosso: non dare confidenza a nessuno, non voltarti, se ti chiamano, non aprire a chicchessia. Eppure non basta. Nel fondo della nostra paura, sappiamo che nulla potrebbe salvarci dall’incontro con la violenza. E’ una ruota della sventura nel Far West. E quando tocca a te, non tocca a me.
Come risolvere il problema? Tralasciamo gli accorati appelli alle forze dell’ordine che sono male equipaggiate e prive di strumenti normativi necessari. Gli uomini in divisa agiscono in un contesto di riduzione del danno, come in certi film apocalittici in cui si scorgono cittadelle assediate dalla malavita, quando il poliziotto di turno è un eroe solitario e muscolare contro un’orda di barbari. Evitiamo, per carità, l’appello alla politica che se ne frega altamente della questione della sicurezza. Oppure strumentalmente la usa, per calcoli di bassa cucina del consenso. Basta scorgere i comunicati stampa, gli stati di Facebook, i tweet – tra compiaciuti inviti alla ghigliottina ed ecumeniche sponsorizzazioni dell’amore universale, sicché si deve volere bene anche al fratello lupo che, poverino ha avuto un’infanzia difficile – per comprendere quanto siamo malmessi in balia di governanti-oppositori pasticcioni, cinici o semplicemente casuali, cioè arrivati nel luogo della responsabilità in modalità random, per i cunicoli di scelte clientelari e perciò assolutamente inadatti a rappresentare alcunché.
Insomma, ci viene il dubbio motivato che non sia possibile risolverlo questo problema, non a breve, non con gli attuali padroni, non con le promesse contemporanee. Dunque, non c’è che un modo per tentare di stare meglio. Un cammino solo interiore, se l’esteriorità è nemica.
Provare a parlare della nostra paura. Confessiamola. Diciamocela. Fuori ci saranno i lupi. Ma dentro ci siamo noi, con le nostre mani strette intorno al senso di una reciproca solidarietà. Ricordate il telegrafo senza fili che chi è stato bambino negli anni Ottanta è arrivato a praticare? Ci si metteva in cerchio. Ognuno sussurrava una parola all’orecchio dell’altro. Dobbiamo proprio fare così, mentre aspettiamo il soccorso. Mettiamoci in cerchio. Sussurriamoci parole all’orecchio, le più belle e le più luminose che conosciamo. Poi dovremo avere la forza di seminare le nostre parole migliori all’esterno, di gettarle nel buio perché fioriscano, nell’oscurità di una cittadella disperata che non ha più occhi per piangere, né riflessi per specchiarsi.
Ma per ora può bastare un segno, anche qui, nella casa accogliente di un giornale che è comunità di emozioni, idee e prospettive. Può bastare una minuscola parola da piantare e domani chissà se sarà un’occasione in più. Chi scrive ha una parola che gli sta particolarmente a cuore: “Gelsomino”. E’ il nome del fiore che spande un profumo gratuito e riconoscibile in certe desolate notti palermitane, per riempirle. Un fiore è solo un fiore. Tanti fiori diventano una siepe o un mondo in grado di abbracciare la paura e consolarla. E voi che scegliete? Quali sono le vostre piccole luci nell’ora delle grandi tenebre?
Ps. Non è ancora la soluzione. Ma è un inizio.