PALERMO – Sono tanti i misteri che Salvatore Bonomolo dovrà chiarire. Per rendersene conto basta riavvolgere il nastro della memoria fino all’anno del suo arresto, nel 2012. Leggendo le cronache e le frasi intercettate in quei giorni emergono i primi interessanti spunti investigativi.
Il neo pentito voleva rientrare nel giro per lasciarsi alle spalle le ristrettezze a cui non era abituato. Per uno come lui, che con la droga aveva fatto la bella vita, era stato difficile accontentarsi degli spiccioli che i parenti gli spedivano dall’Italia. Bonomolo, 52 anni, di cui cinque trascorsi da latitante, fu arrestato a Caracas dagli uomini della sezione Catturandi della Squadra mobile di Palermo. Da allora è rimasto in carcere custodendo tanti segreti fino a quando ha deciso di rispondere alle domande dei pubblici ministeri di Palermo.
Nelle conversazioni intercettate con i parenti Bonomolo faceva riferimento a persone da contattare. Gente di cui si fidava e con i quali voleva avviare degli affari. Chi erano i suoi riferimenti a Palermo? Nel 2005 il collaboratore di giustizia Francesco Famoso gli cuciva addosso il ruolo di “persona che si occupa delle estorsioni per conto di Cosa nostra nella zona del Capo”. Molto di più aggiungeva un altro pentito, Giuseppe Calcagno: “Temo per la mia vita a seguito dei contrasti avuti con Giovanni Marino, cognato di Tommaso Lo Presti, della famiglia mafiosa di Palermo Centro. Alcuni giorni fa sono stato violentemente picchiato da Marino e Bonomolo a causa di un debito da 10 mila euro nei confronti di Giovanni Marino per una partita di stupefacenti. Per questo motivo mi sono presentato dai carabinieri”.
C’era, dunque, la sete di vendetta di Bonomolo dietro la scelta di Calcagno di “saltare il fosso”. Il 2005 è stato il momento più alto della sua scalata nelle gerarchie di Cosa nostra. Le cose sarebbero cambiate presto. In particolare quando ad Agostino Badalamenti – uomo forte nel clan di Palermo Centro, di cui Bonomolo, oltre che cugino, era delfino – subentrò Nicola Ingarao, che qualche anno dopo sarebbe stato crivellato di colpi dai killer del clan Lo Piccolo di San Lorenzo. “Avevano aperto una pescheria assieme in una traversa di via Dante – aggiunse Calcagno -. Con Ingarao non correva buon sangue per via di comportamenti che assumeva Bonomolo. Il Bonomolo odiava Enrico Scalavino e mi ha chiesto di spararci”.
Scalavino, detto “Muschidda”, anche lui uomo del racket nella zona di corso Calatafimi, era tra i destinatari della misura cautelare a cui Bonomolo sfuggì diventando latitante. Era il 29 maggio 2007. Bonomolo riuscì a darsi alla macchia, mentre in carcere finirono, oltre a Scalavino, anche Angelo Monti, Francesco Annatelli, Pietro Guccione, Angelo Casano, Giuseppe Trinca e Giovan Battista Cillari.
Nelle ultime telefonate intercettate prima dell’arresto il neo pentito non parlava solo di questioni familiari, ma anche tentativi di riallacciare i rapporti con gli amici del passato. Discutendo con il cognato, Bonomolo faceva riferimento a qualcuno da contattare, qualcuno a cui “devo mandare a dire una cosa”. Sempre al cognato chiedeva con insistenza se fosse riuscito ad agganciare “quello” che bazzicava in un bar e ora aveva aperto un ristorante. Citava pure Ignazio e Mario tra le persone con cui riallacciare le relazioni. E poi tirava in ballo anche un personaggio misterioso. Uno a cui di recente era stato confiscato il patrimonio. Uno che “ha perso tutto e si aspetta qualche altra situazione e quindi non c’è”. Chi erano i suoi referenti? Si tratta di persone arrestate e di altre che nel frattempo sono state scarcerate.
Il neo pentito aveva pure trovato un referente in Colombia che in contatto con i narcos della droga. Uno straniero o forse un siciliano che si muoveva lungo rotte intercontinentali. I narcotraffici sono tornati ad essere una delle principali fonti di guadagno delle cosche. Traffici che Bonomolo conosceva bene e che allora stava tentando di riattivare. E voleva rialzare la voce. “Se tu fossi qua i corna si calassiru”, diceva al telefono il cognato.