PALERMO – Fra pochi giorni saranno trascorsi ventidue anni, ma non basterà l’eternità per cancellare l’orrore. Era l’11 gennaio 1996 quando per ordine di Giovanni Brusca fu ucciso il piccolo Giuseppe Di Matteo. Vittima innocente della follia mafiosa. Volevano zittire il padre, Santino Di Matteo, collaboratore di giustizia,e se la presero con un bambino di tredici anni.
Persino i mafiosi che nell’orrore ci sguazzano provavano “disgusto”. “Disgusto” è la parola che utilizza il collaboratore di giustizia Sergio Flamia. Le sue dichiarazioni sono riportate nella motivazione della sentenza con cui il giudice per l’udienza preliminare Nicola Aiello, nel settembre scorso, ha inflitto dodici anni di carcere all’architetto Salvatore Scardina. Si tratta di una tranche del processo chiuso con le condanne ad oltre 250 anni di carcere inflitte ai mafiosi di Porta Nuova e Bagheria.
Scardina faceva parte di un elenco di 38 imputati. Nella nuova mafia della provincia palermitana l’architetto sessantacinquenne avrebbe rivestito il ruolo di grande vecchio. Chi meglio di lui, dissero gli investigatori, che aveva avuto come interlocutori i padrini della mafia corleonese. Finita di scontare una pena otto anni, Scardina era tornato alla libera professione dopo avere ottenuto la riabilitazione dal Tribunale di Sorveglianza. Non in Sicilia, ma a Roma. Ed era diventato anche un frequentatore delle serate mondane della Capitale raccontate dalla stampa patinata. Tornava spesso nel suo paese d’origine, Santa Flavia. E di lui tutti avevano un grande rispetto. Rispetto “mafioso” secondo i pm Francesca Mazzocco e Caterina Malagoli, tanto da farlo intervenire per compiere un’estorsione.
Ecco il passaggio in cui Flamia ha parlato dell’omicidio del bambino, strangolato e sciolto nell’acido: “… ancora oggi nei carceri, quando si parla di questo discorso del piccolo Di Matteo se ne parla sempre con disgusto che è una cosa vigliacca che hanno fatto, era una cosa che non si doveva fare… oggi parlano tutti così”.
Non proprio tutti, a giudicare dal racconto del pentito, secondo cui c’è ancora chi, rimasto fedele alle logiche di Cosa nostra, addossa la colpa al padre. Se Santino Di Matteo avesse stoppato la sua collaborazione, oggi suo figlio sarebbe vivo. “Ricordo un particolare che una volta parlandone, eravamo nel carcere di Pagliarelli, proprio con l’architetto Scardina – ha aggiunto Flamia – che io gli dicevo ‘certo non è che è giusto u fattu du picciriddu’… ma tu chi sai, dici, u picciriddu .. u picciriddu so patri l’ammazzò, cioè ne ca l’ammazzò Giuvanni… Ci dissi ‘comu so patri?’ ‘Nca so patri, dici, l’ammazzò.. cioè chi era toccato da questo discorso del bambino direttamente, dava la responsabilità al padre, però sotto quale forma sta responsabilità… boh… dice ca u picciriddu l’ammazzò so patri’”.