Perché scriviamo tanto di Gaspare Vitrano? Ovvio, l’argomento tira e nessun giornale è immune al fascino dei contatti. Ma poi è il cronista che sceglie cosa raccontare e come raccontarlo. E c’entrano arnesi scomodi come l’etica, il rispetto del lettore: contrappesi che nei giornali si continuano a considerare, anche se nessuno ci crede più.
Una premessa: non ci fanno piacere le disavventure di nessuno. Oltretutto, chi scrive pensa che la carcerazione senza condanna – ogni carcerazione senza condanna, sia che riguardi il papavero o altri meno attrezzati fiori di concime e di campo – sia una barbarie. La libertà di un uomo è un bene supremo e non negoziabile. Non si può agganciare a un “forse”.
Ma pensiamo anche che il dovere di un uomo pubblico interpreti altre esigenze. E che i privilegi del ruolo impongano stili e misure diversi rispetto alle concessioni dovute a un privato cittadino. Qui non ci azzecca – direbbe un filosofo contemporaneo – la questione della colpevolezza o dell’innocenza. Ci azzecca moltissimo un provvedimento burocratico abnorme che consente teoricamente uno status inesigibile nei fatti. Come si fa ad agire da parlamentari siciliani senza la Sicilia? Come si concilia l’immagine che dovrebbe essere netta e fondamentale per i politici, portatori presunti di una decenza superiore alla media, con le meschinità e le kafkanerie del siculo potere? E francamente i toni di Vitrano, nella rinuncia a certe prebende, non ci hanno convinto, soprattutto nella rivendicazione del sentimento di responsabilità. Sarebbe stata assai più efficace una stringata nota di due righe. Anzi, di due parole: mi dimetto.