‘Non permettere a nessuno di dirti che quello che desideri è irraggiungibile. Se hai un sogno, devi difenderlo. Se vuoi qualcosa, vai e prenditela. Punto’. Dismessi i panni da giuggiolone del ‘fresh prince’ di Bel Air, un convincente Will Smith pronuncia queste parole lapidarie nel film di Gabriele Muccino -ispirato a una storia vera- che, senza infingimenti, traduce nell’ossessiva ricerca della felicità, identificabile col successo economico, con la ‘felicità materiale’, il sogno americano nel Paese in cui, ben duecentoquaranta anni fa, un drappello di giusnaturalisti includeva nella Dichiarazione di Indipendenza il perseguimento della felicità tra gli inalienabili diritti dell’uomo, insieme al diritto alla vita e alla libertà personale.
Ma cos’è la felicità? L’eterna musica del mondo, nel senso oggettivo e senza tempo attribuitole da Hermann Hesse? Il nazionalpopolare bicchiere di vino con un panino di Al Bano e Romina? Un duraturo benessere? Un attimo di pienezza assoluta? Quale stato merita di essere definito da un lemma tanto paragdimatico, pieno e profondo?
I giorni felici nella vita di ciascuno si contano sulle dita di una mano: un obiettivo raggiunto, un appagamento sentimentale, la nascita di un figlio; o anche l’ebbrezza di una corsa, un viaggio, uno svago, attimi nei quali si depone il fardello di preoccupazione, paura, dolore, che portiamo addosso. Condizioni transitorie, poiché una persona felice per tutta la vita è un idiota o un asceta. E per felicità intendiamo sempre la felicità personale: di solito, ci preoccupiamo poco della felicità di chi ci sta attorno, pochissimo di quella del genere umano. Riteniamo che la felicità sia data dalla casualità, da un fato benevolo; e il suo contrario da un destino avverso.
Cos’è l’infelicità, dunque? Quel sentimento di inadeguatezza che cerchiamo di relegare nel fondo più buio e insieme più noto dell’animo, sempre in agguato? Quel malessere divenuto ormai compagno di vita? Un sentimento da negare? Un motivo per chiedere aiuto e consolazione? Comunque si declini il suo nome -malinconia, pena, angoscia, depressione- la tristezza sta lì, è il personaggio che ha trovato l’autore in noi stessi, compagna dell’essere umano, il quale prova a conviverci, proprio come con una malattia; e, difatti, tra le risposte atte ad esorcizzarla, abbiamo introdotto i farmaci, col risultato di ampliare la gamma di significati d’un concetto connaturato all’uomo e di indurci a ritenere patologica ogni sconfitta. ‘Sono forse tristi i fiori? E le piante? Se non è infelice una scimmia, perché tra tutte le creature viventi deve esserlo l’uomo soltanto?’ chiedeva il mistico indiano Osho Rajneesh rovistando tra i meandri dell’ego, provando a insegnarci a cogliere i messaggi che il mondo esterno e le persone che amiamo ci inviano.
Ma più spesso di quanto non si creda, la speculazione filosofica deriva da problemi concreti. Siamo, se non genericamente, generalmente infelici. Gli ultimi dati Eurostat certificano che gli italiani non ritengono la vita e i rapporti umani soddisfacenti. Il nostro Paese è in sofferenza perché non riesce a recuperare le perdite della crisi e a mettersi a pari dei big UE su industria e lavoro; a stentare è soprattutto l’occupazione giovanile, con un conseguente disagio generazionale. Non è una novità: già nel 2013 il 47° rapporto CENSIS definiva la società italiana ‘sciapa e infelice, in cerca di connettività’, a un passo dal crollo.
L’istituto di indagini di mercato Gallup ha appena stilato una classifica che ritrae le nazioni più felici e infelici, intervistando 66mila persone in 68 Paesi. Dal punto di vista economico, il 45% del mondo pensa il 2016 sarà migliore dello scorso anno, mentre il 22% è pessimista. La speranza riguardo al nuovo anno vede in testa Bangladesh, Cina e Nigeria. In Italia siamo ottimisti solo al 33%, terzultimi dopo Grecia e Austria. Riguardo alla ‘felicità’ in assoluto, ascende al podio un terzetto inatteso: Colombia, Fiji e Arabia Saudita. In fondo alla classifica, Iraq, Tunisia e Grecia. La Colombia, dunque, è il paese più felice al mondo (85%), seguita da Fiji (82%), Arabia Saudita (82%), Azerbaijan (81%), Vietnam (80%), mentre l’Iraq è il paese meno felice al mondo per il secondo anno di seguito (-12%). Un mappamondo della felicità imprevedibile rispetto all’eurocentrico comune sentire. L’Italia figura invece tra i dieci Stati più pessimisti: la speranza di un 2016 migliore rispetto al 2015 la colloca in fondo alla graduatoria.
Il trend non è mutato, dunque, da un decennio a questa parte, ovvero da quando uno studio scientifico ci dipinse come il popolo più infelice d’Europa, distruggendo lo stereotipo del paese della ‘dolce vita’ nel quale si viveva bene. Risalente al 2004, la ricerca della Cambridge University, condotta su un campione di 20.000 cittadini nei 15 Stati al tempo membri dell’Unione Europea, scopriva che non solo il popolo italiano era il più infelice, ma si classificava al quart’ultimo posto in una classifica che calcolava il tasso di soddisfazione delle popolazioni europee, dopo greci, portoghesi e francesi. Ribaltando un altro luogo comune, si evidenziava come fosse falso che le popolazioni nordiche fossero più infelici di quelle mediterranee. Il popolo europeo più felice, al contrario, risultava essere quello danese, seguito da quello finlandese e dall’irlandese. L’elemento ritenuto essenziale per essere felici, comunque, non era individuato nella ricchezza, ma nella fiducia nelle istituzioni (in particolare governo e polizia) e nelle categorie sociali indicative come affidabilità degli amici, qualità dei vicini di casa, solidità del posto di lavoro. I paesi con la maggior percentuale di felicità rivelavano anche il più alto tasso di fiducia nel proprio governo, nelle leggi e nei concittadini. L’infelicità dei cittadini dell’ex Belpaese appariva determinata dall’assenza di fiducia nel sistema politico e sociale e nell’avvenire.
Veniamo a tempi recenti. Un’inchiesta dello scorso anno, interessante perché riguarda le generazioni più giovani, quelle che dovrebbero essere felici e spensierate per definizione, dipinge un fosco quadro del nostro modello scolastico: alunni scontenti, risultati sotto la media, docenti poco interessati. L’enorme mole di dati raccolti nel focus dell’Ocse-Pisa, dimostra che gli studenti italiani sono più trascurati a scuola dei loro coetanei europei. Il rapporto tra docente e alunno (15 anni l’età media presa in considerazione) influenza, sia in modo positivo che negativo, il senso di appartenenza dei ragazzi alla scuola, il loro benessere e persino il rendimento scolastico. In base ai risultati ottenuti, gli studenti italiani sono meno felici di stare a scuola: solo il 75% degli intervistati dichiara di avere piacere nel frequentare la scuola, contro una media mondiale che si attesta intorno all’80%. L’ambiente influenza i risultati, è dimostrato.
Secondo il fondatore della psicologia positiva Martin Selingman, difatti, il sessanta per cento della felicità è determinata dai nostri geni e dall’ambiente. Però, occorre anche dire che il restante quaranta per cento dipende da noi. Tutti gli esseri umani vogliono essere felici; peraltro, per poter raggiungere una tale condizione, affermava un tal Jean Jacques Rousseau, bisogna cominciare col capire che cosa si intende per felicità. Per chiudere il cerchio, torniamo dunque all’eterna domanda di apertura: che cos’è la felicità?
Forse, ognuno ha una sua personale risposta. Forse, l’umana condizione suggerisce un’intuizione condivisibile, che risieda nel riprendere contatto con la sacralità della vita, vivendo con gratitudine e stupore una realtà che avrebbe del miracoloso se non annaspassimo inseguendo istinti e pulsioni individuali, agendo da lupi contro lupi. Franco Battiato invocava il raggiungimento d’un centro di gravità permanente, d’un equilibrio smarrito. Connetterci con il nostro ‘centro’, consapevoli che non è mai stato perduto, ma dimenticato, ritrovarlo e alimentarlo è essenziale se vogliamo rispondere alla crisi fuori e dentro di noi, riassumendo la responsabilità di noi stessi e del mondo in cui viviamo.
Ogni ricetta, anche modesta, prevede prima della cura una diagnosi, che azzardiamo. Forse siamo tanto infelici perché abbiamo smesso di amare. Non vogliamo più bene a nessuno, bene davvero, intendo, quel bene che supera i limiti degli altri ma, anzitutto, i propri. Recuperare il bisogno di amare prima di mettere sempre avanti quello di essere amati, cominciare un esame autocritico, con buona pace d’una psicologia di massa che ci rassicura spiegando che sbagliano sempre gli altri, che giustifica ogni azione come reazione a torti -anche remoti- subiti, significa non ammettere che ci sia chi è cattivo, o anaffettivo, o costantemente rabbioso. E, per restare sul piano scientifico, ci piace ricordare che secondo una ricerca condotta sul volontariato da Luca Stanca, economista dell’Università di Milano Bicocca, che ha voluto misurare il valore della gratuità sulla base di indici di ‘Life satisfaction’ registrati nelle città di tutto il mondo, le persone più felici sono quelle che si dedicano agli altri. Non c’è niente di nuovo sotto il sole. ‘Nella vita esiste una sola felicità indubitabile: vivere per gli altri’, scriveva Lev Tolstoj ne ‘La felicità familiare’, apparso nel 1859.
Tra i tanti aforismi sulla felicità, un proverbio tibetano recita ‘Cercare la felicità fuori di noi è come aspettare il sorgere del sole in una grotta rivolta a nord’. E allora, ricominciamo da uno. Da noi stessi.