Quando muore un poliziotto – senza dimenticare gli altri – tutti restiamo intimamente feriti. Perché tutti, da piccoli, abbiamo sognato di essere poliziotti, carabinieri, comunque eroi con l’uniforme addosso, e di proteggere il bene, lottando contro il male, e di salire almeno una volta sulla grande auto con la sirena e i lampeggianti. Non potevamo, perciò ci consolavamo con le macchinine in miniatura. Almeno così stato per i bambini fino agli anni Ottanta.
Quando muore un poliziotto, tutti siamo dolorosamente colpiti. Perché muore una parte – nei suoi lineamenti umani – di quell’ordine calmo che sempre invita alla giustizia. Muore un pezzo della nostra sicurezza. Se percorriamo i nostri giorni con un po’ di serenità, se intorno non è solo giungla, se una goccia di vita civile resiste ancora in tanta arsura, se possiamo dormire la notte, ciò accade perché “c’è un uomo con un fucile che fa la guardia sopra un muro”. E noi lo vogliamo lì, su quel muro – come spiegava Jack Nicholson, interpretando le parti di un perfido ma sincero comandante – perché è lì che ci serve. Solo che spesso dimentichiamo di dirgli semplicemente grazie.
Quando muore di una morte rapace un giovane come Alberto Conforti – poliziotto e ragazzo allegro – veniamo percossi dallo sgomento. Perché abbiamo visto il sole nascente del suo sorriso, sia pure in dissolvenza, su facebook, e ci sembra impossibile che non esista più. Nei sorrisi dei più giovani, impegniamo un sorso di eternità; a loro affidiamo l’immagine di una freschezza che vorremmo perenne, come le persone che amiamo e le consuetudini del nostro fragile cammino. Poi scopriamo che nulla dura per sempre, che la potenza dell’amore è meno forte del distacco, che persone bellissime possono uscire di scena, semplicemente chiudendo la porta alle loro spalle. E abbiamo paura.
Quando muore un figlio, solo chi ha già perso un figlio può capire davvero quello che è successo. E’ come perdere in una sola notte la puntata di tutta un’esistenza. Dopo c’è solo spazio per il coraggio che non manca: basta rileggere le parole del papà di Alberto. Tutte le altre parole saranno vane, anche nella dolcezza del sostegno che vogliono offrire. C’è una ferita che non si risanerà più, profonda peggio di altre. E il coraggio dovrà farci i conti per ogni respiro da respirare che rimane.
Ma, guardando di nuovo il viso di Alberto, pensando a quante persone hanno inondato di affetto il suo funerale, non ci rassegniamo. Forse non è vero che il distacco è più forte dell’amore. Forse non è vero che basta chiudersi una porta dietro le spalle per scomparire. Qualcosa resta nell’aria, una cosa misteriosa, invisibile, sfuggente, però c’è, ne avvertiamo il profumo. E continuiamo a chiamarla vita.