(tratto da Il Fatto Quotidiano) Da quando sono stata eletta al Parlamento europeo ho subito iniziato a visitare i reparti 41bis dei più importanti penitenziari italiani. Non per curiosità, ma perchè sapevo bene che le carceri italiane sono molto popolate e che tanti detenuti si trovano reclusi in precarie condizioni di salute. Volevo rendermi conto di persona di come stavano le cose, specialmente nei raparti di cosiddetto isolamento. La legge ovviamente prevede che i detenuti vengano curati, giustamente, anche in cella. Per questo mi auguro che, nel rispetto delle regole e della dignità umana cui hanno diritto tutti e perfino i più feroci mafiosi, Bernardo Provenzano riceva in carcere tutte le cure di cui necessita.
Ho letto le dichiarazioni di Angelo Provenzano, primogenito del boss, cui la cronaca palermitana di Repubblica ha dedicato ampio spazio: “Se l’esistenza di mio padre dà fastidio, qualcuno abbia il coraggio di chiedere la pena di morte, anche ad personam”. Dimentica, Provenzano junior, che le condanne a morte non fanno parte della nostra cultura, specialmente dei familiari delle vittime innocenti di mafia, neanche di quelle uccise dal suo genitore. Noi non sappiamo augurare la morte ad alcuno, pensi, nemmeno ai nostri carnefici; tanto meno sapremmo provocarla, volutamente o meno. Spero sia almeno cosciente di non poter dire lo stesso del padre.
Ad Angelo Provenzano vorrei dire che se ha contezza del fatto che suo padre non stia ricevendo le cure necessarie, è giusto e doveroso denunciarlo nelle sedi più appropriate e con i toni più giusti. Non su un giornale. Sparare nel mucchio non serve a nulla. Come non serve a nulla irritarsi e lasciarsi andare a ragionamenti autoreferenziali e autoassolutori come quelli letti oggi sulle pagine di Repubblica. Lui non deve immedesimarsi nei familiari vittime di mafia, per favore; lui deve pensare solo a far si che suo padre, negli ultimi anni di vita, possa riscattare in parte una vita trascorsa nella violenza e nella morte.
Sono certa che Angelo Provenzano abbia a cuore la salute e la vita del padre, ma lui sa altrettanto bene che dovrebbe limitarsi ad un unico, accorato appello: chiedere al padre di collaborare con la giustizia, pentirsi di tutte le azioni criminali che hanno costellato la sua intera vita e raccontare ai magistrati tutto quello che sa e che vuole portare con sè in una tomba, convinto così di salvare un onore che non ha mai avuto. Perchè il silenzio che porta avanti dal giorno del suo arresto è la testimonianza più chiara e lampante della sua convinzione di non avere nulla da farsi perdonare. Come fa il figlio a chiedere pietà, e con quei toni, mentre lo stesso superboss con il suo silenzio continua ad uccidere innocenti?
Presentare un’istanza di scarcerazione dopo soli cinque anni di carcere equivale a dare uno schiaffo alle vittime: cinque anni di reclusione valgono le vite che Provenzano ha stroncato in oltre cinquant’anni di “carriera”? Quando mi sono recata al carcere di Novara ho voluto incontrare Provenzano di persona. Speravo, forse ingenuamente, che mi dicesse qualcosa, che mi lanciasse un segnale, che svelasse un minimo di volontà di parlare. L’ho guardato dritto negli occhi, senza mai abbassare lo sguardo, alla ricerca di una traccia di pentimento. Gli ho chiesto se stesse bene e se avesse bisogno di qualcosa. Lui, con gli occhi fieri e per niente afflitti, mi ha risposto di no, che stava bene così.
A “pretendere”, ancora una volta, è il figlio di un uomo che in questo momento è ancora convinto che ammazzare magistrati, giornalisti, esponenti delle forze dell’ordine, imprenditori, contadini e innumerevoli cittadini innocenti fu cosa buona e giusta, mentre i figli delle vittime con grande dignità vivono il proprio calvario (giudiziario, sociale, personale) senza urlare, senza sbraitare, con la consapevolezza che sarà difficile poter dare un senso a questo incredibile massacro finchè i figli dei carnefici passeranno per figli di vittime attraverso le colonne dei giornali. Dignità e compostezza sono cose che ci differenzieranno sempre.
Angelo Provenzano convinca suo padre a parlare, a collaborare con la giustizia negli ultimi tre anni che, pare, gli rimangano; solo allora, forse, sarò disponibile a rivedere la mia posizione.