Quando la mafia spara e uccide | Tanti sospetti, nessuna certezza - Live Sicilia

Quando la mafia spara e uccide | Tanti sospetti, nessuna certezza

L'omicidio di Francesco Nangano

Una scia di omicidi irrisolti. Le ultime novità investigative

PALERMO – C’è un colpevole per uno solo dei recenti omicidi di mafia. Fabio Fernandez è stato condannato a dieci anni per l’omicidio di Giuseppe Calascibetta.

Killer reo confesso, Fernandez aveva chiamato in causa altre tre persone per le quali non sono stati trovati i riscontri. Se è stato davvero lui ad ammazzare il capo mandamento di Santa Maria di Gesù nel 2011 allora vuol dire che non è stato un omicidio ordinato da un altro boss. Fernandez individua il movente nella lite per questioni di droga fra Calascibetta e un suo parente. C’è un colpevole, seppure i misteri restino, a differenza degli altri omicidi commessi negli ultimi anni a Palermo: Davide Romano, Francesco Nangano, Giuseppe Di Giacomo e infine Giuseppe Dainotti.

Dainotti è stato ammazzato a maggio di due anni fa in via d’Ossuna, rione Zisa, alle 8 di mattina mentre era in bicicletta. È stato affiancato da uno o due uomini in sella ad uno scooter. Una sola telecamera inquadrava la via. Ha immortalato la ruota di uno scooter Honda Sh, che si allontanava in direzione del Papireto, per poi imboccare una delle prime traverse a sinistra. E si vedeva pure una scarpa da tennis. Del killer, però, i poliziotti della Squadra mobile potrebbero possedere il Dna. Sull’asfalto c’era una traccia di saliva mista a sangue che non appartengono alla vittima. Dainotti potrebbe avere pagato con la vita la voglia di tornare a comandare dopo anni di carcere.

Già nel 2010 si manifestarono delle tensioni. Dopo l’arresto di Gregorio Di Giovanni, reggente del mandamento di Porta Nuova, al fratello Tommaso toccò sobbarcarsi il peso delle esigenze dei detenuti. Nel luglio 2010 il telefono di Tommaso Di Giovanni squillò. All’altro capo della cornetta c’era la zia Francesca Paola Dainotti, sorella dell’uomo assassinato in via d’Ossuna, nonché madre di Tommaso Lo Presti, altro pezzo grosso della mafia di Porta Nuova: “… allora io oggi neanche posso fare la spesa… a zia”. “Più tardi vengo…”, rispondeva Di Giovanni.

Nell’ottobre successivo a protestare era un’altra nipote di Dainotti, Anna Lo Presti, sorella di Tommaso. Al marito Salvatore Pispicia diceva: “… portò 400 euro per la settimanata di queste quattrocento euro… cento euro gliel’ho dati a mia madre per fargli la spesa, duecento euro l’ho portati al dentista che non gli portava soldi da qualche tre mesi al dentista, quanto restano… mi sono rimasti gli spicci”

L’uomo incaricato di “portare” i soldi sarebbe stato Vincenzo Coniglio che fino al suo arresto era un insospettabile parrucchiere di corso Calatafimi, ma faceva il cassiere dei fratelli Di Giovanni oggi entrambi in carcere. Gregorio avrebbe partecipato alla nuova commissione provinciale di Cosa Nostra, mentre Tommaso sta finendo di scontare una condanna.

Prima di Dainotti, il 12 marzo 2014, era stato ammazzato Giuseppe Di Giacomo. Tommaso Di Giovanni avrebbe scelto la guida della famiglia di Palermo Centro nel corso di un pranzo al ristorante. “Stavolta tocca a Giovanni”, disse. Toccava a Giovanni Di Giacomo, killer ergastolano, scegliere il nuovo capo. Il pentito Francesco Chiarello disse di avere avuto notizie dell’omicidio da un altro dei fratelli Di Giacomo, Marcello, arrestato nell’aprile del 2014. Il movente del delitto sarebbe da ricercare nel furibondo scontro che Di Giacomo ebbe con Tommaso Lo Presti.

Anche in questo caso, però, solo ipotesi e, ancora una volta, tracce di saliva che potrebbero appartenere al killer. Di Giacomo fu assassinato in via degli Emiri, nel cuore della Zisa. Fu affiancato da uno scooter mentre era a bordo di una Smart. Addosso al suo giubbotto sono state trovare tracce di salva che non appartengono a Di Giacomo. Le indagini note sono ferme alle dichiarazioni di Vito Galatolo, boss pentito dell’Acquasanta: “Giuseppe Di Giacomo aveva offeso Tommaso Lo Presti che voleva impadronirsi del mandamento e per questo fu ucciso”, ha messo a verbale l’ex boss.

Da un omicidio all’altro, restando a Porta Nuova. Il 6 aprile 2011, in via Michele Titone, una strada residenziale nella zona di corso Calatafimi, c’è una Fiat Uno parcheggiata al centro della carreggiata. La scoperta è macabra, nel bagagliaio c’è il corpo di Davide Romano. È nudo, con le mani e i piedi legati, e un colpo di pistola alla nuca. La vittima era un picciotto del Borgo Vecchio che scalpitava per farsi largo tra le nuove leve della mafia. Silenzio assoluto per alcuni anni. Poi nel 2015 si pente Chiarello: “Io ero ad Oristano, ho fatto un colloquio, ho mandato a chiamare mia moglie ad un colloquio, perché io già ero pronto per la collaborazione, perché avevo tanta paura, il fatto che mi dovevano uccidere e poi mi volevo levare certe cose, che sapevo, sia di Romano, sia dell’avvocato Fragalà e di altre persone”.

Il pentito ha raccontato che Romano sarebbe stato torturato e giustiziato in un magazzino alle spalle del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Il destino riserva macabre coincidenze, visto che il magazzino si trova in via Scippateste. Nel corso di un interrogatorio Chiarello ha parlato del “ragazzo che ha ucciso a Davide Romano”. Una frase ripetuta più volte mentre parlava dell’uomo che si sarebbe occupato di sostenere le spese della sua famiglia: “… per quanto mi riguarda a me, che mi faceva avere i soldi, tramite mia moglie, 750 euro”. Alla fine i soldi ricevuti come anticipo da Tommaso Di Giovanni, tramite Domenico Tantillo, raggiunsero la cifra di 2.500 euro. A fargli avere i soldi sarebbe stato il padre del ragazzo che avrebbe partecipato all’omicidio Romano. Il padre è noto alle cronache giudiziarie. Il figlio, invece, era rimasto sempre in posizione defilata. Un volto nuovo ma affidabile, almeno stando al racconto di Chiarello, che lo piazza nel gruppo che torturò e uccise Romano. Uno dei picciotti che rispose signorsì ad un pezzo grosso. “Lo zio Pietro è stato, Calogero Lo Presti… comprava la droga fuori dalla borgata”, litigavano “per il prezzo della droga ed aveva risposto male a Lo Presti”: ha raccontato Galatolo.

Le parole di un solo pentito non bastano: la storia si ripete. Sono state le microspie a svelare gli unici commenti sull’omicidio di Francesco Nangano. La sera del 16 febbraio 2013 i sicari lo uccidevano all’uscita di una macelleria di via Messina Marine. Gli intercettati erano Mariano Marchese e Gaetano Di Marco, titolare di un deposito di marmi e luogo dei summit del clan. Parlavano delle loro impressioni sul delitto: “… questo che hanno ammazzato?… un magnaccione … fimminaru… andava con cu e ghiè”. Nangano era stafraseto pure avvisato: “Gli hanno bruciato… tutte cose”. Poi Marchese ipotizzava che per il delitto potesse essere stata necessaria l’autorizzazione dei fratelli Graviano: “Può essere che fu un messaggio di Filippo… o di Giuseppe”. Forse l’autorizzazione è davvero arrivata dal carcere, ma non dai Graviano. La storia delle femmine celerebbe altri contesti legati al mondo della droga. In tutti i delitti i killer hanno mostrato accortezza. Accortezza e silenzio. Nessun commento o quasi. 


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