PALERMO – Il 23 maggio 2017 i killer ammazzano Giuseppe Dainotti in via D’Ossuna, nel rione Zisa, a Palermo. Le cimici sono accese da tempo a Porta Nuova. Registrano fibrillazioni, interrogativi e spunti investigativi. Nessuna certezza, però.
Due giorni dopo il delitto all’interno del carcere Pagliarelli Rosalia Spitaliere chiedeva al marito detenuto Paolo Calcagno, reggente del mandamento di Porta Nuova, se avesse appreso la notizia dell’omicidio. Poi, lo rassicurava: aveva fatto visita ai parenti della vittima.
Un’eventuale assenza sarebbe stata notata e male interpretata: “… lo hai sentito quello che è successo?… ci siamo andati… no? non dovevo ?… ma perché mi sono informata prima se tutti c’erano… e che dovevo fare ?…”. In effetti a rendere omaggio alla salma erano stati pure “quello che gli piace Gianni Celeste” e “sorriso”. Sono due dei tanti modi con cui vengono chiamati i fratelli Tommaso e Gregorio Di Giovanni.
Calcagno concordava con la scelta della donna e chiedeva se il fratello della vittima l’avesse riconosciuta. Non solo l’aveva riconosciuta, ma “mi ha detto pure… se c’era lui (ed indica il marito)… si stava tutto il tempo qua…”. Esequie e veglie funebri da sempre sono un momento delicato. Chi non si presenta ha qualcosa da nascondere e così si fa la corsa per non destare sospetti. È quasi scontato che anche il mandante dell’omicidio abbia recitato la sua parte, con la più scontata delle messe in scena.
Calcagno non ne sapeva davvero nulla. Chiedeva alla moglie se avesse appreso qualcosa sull’omicidio per il quale “tutti” erano rimasti sorpresi. Sono “cose che fanno solo male”, diceva.
L’omicidio Dainotti non ha ancora un colpevole. A indagare sono gli agenti della Squadra mobile, il cui lavoro si intreccia con quello dei carabinieri. Ci sono degli episodi che manifestazione l’esuberanza del boss assassinato. Un’esuberanza che gli è costata la vita. Sapeva che presto, sfruttando una inaspettata legge poi superata, le porte del carcere per lui si sarebbero aperte dopo venticinque anni. E prometteva a Salvatore Bonomolo, oggi pentito, che avrebbe fatto di tutto per aiutarlo. “Siccome io mi lamentavo… che non mi arrivavano i soldi – ha spiegato Bonomolo – allora Dainotti mi disse: ‘Non ti preoccupare, ché ora mando a mio cognato da reuccio, ca c’è iddu”.
Dainotti, dunque, avrebbe chiesto l’intervento di Gregorio Di Giovanni, tornato in carcere con l’accusa di avere fatto parte della Nuova Cupola di Cosa nostra. Niente da fare e soprattutto niente soldi per Bonomolo: “Dopo due mesi io ho ricevuto la risposta e m’ha detto: ‘Un tinni vuole mannare, perché tu tinni isti’, riferendosi alla scelta di Bonomolo di trasferirsi per un lungo periodo in Venezuela.
Che Dainotti si fosse messo in testa di riprendersi il posto che il carcere gli aveva tolto emergerebbe dalla vicenda dell’estorsione al bar Manila. Cesare Di Marco, durante la vecchia gestione di Rubens D’Agostino (pure lui in manette, ndr), aveva di fatto acquisito la titolarità del bar ubicato in via Galileo Galilei. Il locale fu sequestrato nel 2012. Di Marco non aveva “rispettato gli accordi verbali” con i soci della Dama sas, società riconducibile a D’Agostino, e intascava l’affitto della gestione affidata a una terza persona, un tunisino. Solo che nessuno era stato informato.
D’Agostino ne parlò con Tommaso Di Giovanni, fratello di Gregorio, poco prima che lo arrestassero di nuovo per scontare un residuo di pena. Di Giovanni lo avrebbe autorizzato a picchiare Di Marco. Quest’ultimo, però, cercò sponda in Salvatore Sorrentino, boss di Pagliarelli, Giuseppe Corona e nello stesso Dainotti.
D’Agostino fu uno dei primi a commentare la morte di Dainotti: “…. si è immischiato uno e questo lo hanno ammazzato… a quello… a Peppino Dainotti… questo è uscito dalla galera … è stato un anno fuori … e l’hanno ammazzato al Papireto… e due settimane prima si era immischiato lui.. per prenderci le difese a questo… però non c’entra niente… con la discussione no”. Lo diceva per allontanare ogni sospetto da se stesso.